Questa storia è vera, asciutta e diretta. È il racconto di una madre che rimarrà senza nome.
Siamo seduti vicini ,e nell’insolito contatto creatosi tra noi, mi parla del figlio.
«È morto a 44 anni» dice guardando l’orologio appeso alla parete per leggere il tempo ormai trascorso.
«Era carabiniere. Era nei Ros. Per sei anni non ho saputo nulla di lui» aggiunge con un misto di orgoglio e tristezza. «Negli ultimi anni della sua vita ha vissuto con un nome falso in una città diversa da Milano, era in servizio lì. Per proteggere me, hanno tenuto segreta ogni informazione che lo riguardava fino al giorno in cui hanno telefonato per dirmi che aveva un tumore e la morte era ormai prossima».
Non piange, e mi guarda cercando di carpire i miei pensieri. La tentazione di pronunciare una parola di conforto è forte, ma parrebbe stantia. Tengo le labbra serrate e faccio un cenno con la testa per dirle di andare avanti, se ne ha la forza e la voglia.
«Ogni anno i suoi comandanti vengono a tributargli onori sulla tomba. Se avesse svolto male il suo compito non lo avrebbero fatto. Mio figlio ha lavorato bene» dice fiera. «Ormai sono vecchia, e vivo con i soldi della pensione del mio defunto marito. Per mio figlio, morto a 44 anni per servire lo Stato, non ho mai visto un soldo, e mi chiedo perché non abbia diritto a una piccola pensione per ciò che ha svolto».
La guardo e scuoto la testa in segno affermativo. Capisco cosa intende signora, vorrei dirle. Riesco a scorgere quell’assenza che i soldi potrebbero riempire con dolce inganno. Ci alziamo stringendoci la mano. Mi augura buona fortuna per il nuovo lavoro. Le auguro di vivere una vita serena.
Vorrei concludere con un pensiero intelligente questa breve storia per darle il giusto valore, ma sarebbe comunque poca cosa. Mi taccio, proprio come ho fatto con la madre senza nome che per sei anni ha dialogato con un figlio assente.