Ho una cicatrice indelebile causata da ciò che avvenne presso la stazione ferroviaria di Bergamo in una giornata afosa e appiccicaticcia. A spingermi nel capoluogo orobico con la mia R5 bianco panna, in pieno agosto, fu la prospettiva di trascorrere tre giorni in compagnia di una ragazza.
Con IB avevo intessuto un fitto dialogo tramite la chat di un noto operatore telefonico e, discorrendo di argomenti vari, si giunse al punto di ciarlare d’erotismo tanto da scoprire che il suo interesse sessuale nei miei confronti era pari alla mia curiosità nei suoi riguardi. Senza troppo rimuginare se fosse giusto o meno soddisfare tale curiosità, salii in macchina diretto in Lombardia.
Di IB conservo l’immagine di un viso carino (non ancora di donna) segnato dagli sfoghi dell’acne e leggermente nascosto dalla montatura retrò degli occhiali. Allo stesso tempo, la memoria, vacilla sui dettagli riguardanti le sue forme, e la causa è presto detta.
Appena ci incontrammo IB tenne a precisare il desiderio di conservare la propria illibatezza per la prima notte di nozze e, in conformità a tale decisione, mai si sarebbe denudata al cospetto mio o di qualsiasi altro maschio fatta eccezione, ovviamente, del futuro consorte. Tale risoluzione era dovuta, sottolineò, per non cedere alla vertiginosa tentazione che viene a crearsi tra due corpi svestiti. Dal mio punto di vista le premesse per un erotico soggiorno sfumarono dopo pochi scambi di battute, e i 250 km percorsi con l’idea di introdurre il mio pene nella di lei vagina rischiavano di tramutarsi in una beffa bella e buona. La certezza di passare tre notti in albergo con me stesso come unico compagno era tutto fuorché eccitante ma, come si addice alle migliori sceneggiature, IB si rivelò a suo modo sorprendente.
Al giro turistico della città Alta, la ragazza bergamasca unì una smodata passione per il mio sedere (manifestata in continui palpeggiamenti) e una sana dimostrazione della propria arte nella pratica della fellatio manifestata nei posti più improbabili — che l’idea di mostrarmi i luoghi dell’infanzia fosse solo un pretesto, lo capii subito.
In IB, nonostante la mia ingenuità, percepii il bisogno spasmodico di scontrarsi con un passato opprimente. Mi regalò pompini davanti al collegio clericale frequentato per tutto il percorso scolastico; al campo di calcio in cui assisteva, senza mai partecipare, alle partite del fratello con gli amici; sotto al porticato usato dai clochard come tetto d’emergenza. E fu proprio qui, dopo aver raggiunto l’orgasmo, che mi avvidi della presenza di uno spettatore e quando lo feci notare IB rispose che, se ero stato condotto in quel luogo, un motivo doveva pur esserci. Ma, e qui lo confesso, la compagnia di IB e la bellezza di Bergamo Alta sono ricordi marginali rispetto a ciò che avvenne alla stazione ferroviaria.
L’ora convenuta con IB per l’incontro era mezzogiorno e, come spesso mi capita, vi giunsi con qualche minuto d’anticipo. Nel mentre decidevo se farmi una birra al bar, oppure trascorrere quei pochi minuti d’attesa in macchina, la vidi arrivare.
Aveva lunghi capelli corvini che le coprivano gran parte del viso, e un passo deciso nell’instabile equilibrio. Indossava una maglietta grigia, nel taglio simile a un camice ospedaliero, e dei jeans logori. Si sedette di fronte alla mia automobile e compì gesti precisi con estrema naturalezza. Scorsi nei suoi occhi un barlume d’estasi mentre l’eroina entrava in circolo. La vidi sorridere inebetita poco prima di cedere al torpore stupefacente. Alienato dalla situazione fui capace solo d’ingranare la retromarcia e andarmene, scordandomi pure di IB. Quello spettacolo, così crudo e ipnotico, lo sentivo (e tuttora lo è) troppo vicino e doloroso. La necessità di lasciarmelo alle spalle, cancellando dall’immaginario quegli attimi in modo definitivo, era un proposito che sentivo impellente. Fallii, e queste righe ne sono la testimonianza.
E mi dispiace ammettere l’incapacità di rendere partecipe te che leggi dell’atmosfera creatasi in quei pochi minuti a cavallo di un torrido mezzogiorno bergamasco inzuppato dal sudore di due perfetti sconosciuti. Due, come i pallidi volti imperlati di gelide gocce. Due, come i colori che poco si sposavano in quel triste quadro. Una pennellata verde, per descrivere l’aiuola in cui giaceva una delle innumerevoli solitudini di cui è costellata la vita; l’altra grigia, per una maglietta poco chic stagliata davanti alla facciata di una stazione.
E ora, cercando di attribuire un significato a un evento che chiedeva solo d’essere vissuto senza giudizio alcuno, mi pongo nudo davanti allo specchio per rileggere quegli attimi con sguardo esterno e conto le numerose cicatrici (tangibili e non) disseminate lungo il mio corpo. Minuscoli squarci come quelli presenti nell’avambraccio della giovane sconosciuta. Piccole lacerazioni che, se unite da un’ipotetica linea, tracciano la figura attuale che risponde al mio nome.
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