Verne – Novembre

[…]

Venivi dall’atrio del cuore

portando le chiavi del sole

domani faremo l’amore

e niente potrà mai cambiare.

Di questo rimase il rumore

d’un sogno che come nel mare

s’infrange su nere scogliere

d’un nero che può cancellare.

Si dice che il sogno dell’uomo

è far sì che il proprio domani

sia senza calar del Sole

ma dimmi com’è senza amare?

Ma i sogni son figli del cuore

creati in quanto dolore

spogliati della lor ragione

per questo mandati a morire.

Verne – Materia (2006) Carmelo & Giuseppe Orlando, Massimiliano Pagliuso

Ho visto 4 concerti dei Novembre: Treviso, Milano, Padova, Dinkelsbühl. Ricordo ancora il primo, al New Age. Era il tour di presentazione di Novembrine Waltz, e i Novembre dividevano il palco con altri gruppi metal italici. E il sottoscritto era lì, in quello strano incrocio del New Age in cui ingresso dei camerini, bagni e bancone del bar convergevano in un unico punto. Ero lì. In attesa di una birra e dell’esibizione della prossima band. Sentii una gran pacca sulla spalla e girandomi, pronto per “mandare in mona” quello che credevo fosse un amico in vena di scherzi, mi ritrovai davanti Carmelo che mi disse Grande! Gran bella maglietta.

È difficile spiegare, a chi non segue la musica heavy metal, lo strano rapporto che c’è tra le band e i fan. È difficile spiegare la gioia di un ragazzo (poco più che ventenne) che si ritrova davanti al muso la faccia sorridente di uno dei suoi idoli. Ed è difficile spiegare quanto siano importanti, per i metallari, le magliette. Sono un tratto distintivo, un veicolo per trasmettere, oltre all’amore per un genere, anche le sensazioni/emozioni che un gruppo rappresenta.

Conservo ancora quella maglietta. Dopo 20 e più è ancora intatta, salvo per il colletto strappatosi dopo un concerto dei Grave Digger. L’ho conservata perché ho molti ricordi legati a essa e ai Novembre. Ricordi che si tramutano in sorrisi, e non solo. E per uno abituato a non conservare oggetti tangibili del passato, è davvero un fatto singolare. Singolare come la musica dei Novembre.

Le parole sono importanti

Ieri, per l’ennesima volta, ho riguardato “palombella rossa” di Nanni Moretti. È una pellicola che adoro, come la maggior parte dei lavori del cineasta romano ma, rispetto agli altri suoi lavori, questo film ha una forza ammaliatrice su di me in quanto il tema del linguaggio e dell’uso delle parole – famosa la scena dello schiaffo che culmina con il grido rabbioso “le parole sono importanti” – riflette un percorso che sento mio.

E proprio come Michele Apicella (il protagonista) si aggrappa ai ricordi e al linguaggio per ricostruire la propria identità, allo stesso modo passeggio a ritroso nel tempo per rivivere situazioni e persone (Spore Poetiche è proprio questo) per trasformarli in racconti, riappropriandomi così della mia identità. E ciò accade proprio grazie alle parole rimaste impresse nella mente, piccoli scorci limpidi sul passato capaci di rimanere vividi.

Il mio modo di archiviare i ricordi si basa prevalentemente sull’affidarmi alla memoria – per quanto sia conscio che col tempo questa deforma i ricordi stessi – e a piccole annotazioni scritte in qualche agenda, o foglio sparso. Non conservo fotografie – ne ho pochissime – né oggetti del passato – quando qualcosa non ha più uno scopo propositivo sul mio vivere, la butto.

Negli anni ho raffinato la tecnica del “lasciare andare” persone e oggetti che, a prima impressione, parevano importanti. Ho imparato a non fare affidamento sugli oggetti materiali per “sentire” vecchie sensazioni, né tantomeno a rivedere amici/amiche di vecchia data.

A volte mi sembra di essere proiettato verso il futuro, consapevole che ciò che verrà sarà sempre più malleabile di ciò che è stato.

E voi, conservate vecchi scatoloni e bauli contenenti i ricordi di quando eravate bambini/e, o come il sottoscritto amate la “pulizia”?


P.S. anche i miei lavori letterari sono frutto di una scrematura, spesso manifestata in una splendida buberata. I miei scritti li trovi –>CLICCANDO QUI

Ho una cicatrice indelebile…

Ho una cicatrice indelebile causata da ciò che avvenne presso la stazione ferroviaria di Bergamo in una giornata afosa e appiccicaticcia. A spingermi nel capoluogo orobico con la mia R5 bianco panna, in pieno agosto, fu la prospettiva di trascorrere tre giorni in compagnia di una ragazza.

Con IB avevo intessuto un fitto dialogo tramite la chat di un noto operatore telefonico e, discorrendo di argomenti vari, si giunse al punto di ciarlare d’erotismo tanto da scoprire che il suo interesse sessuale nei miei confronti era pari alla mia curiosità nei suoi riguardi. Senza troppo rimuginare se fosse giusto o meno soddisfare tale curiosità, salii in macchina diretto in Lombardia.

Di IB conservo l’immagine di un viso carino (non ancora di donna) segnato dagli sfoghi dell’acne e leggermente nascosto dalla montatura retrò degli occhiali. Allo stesso tempo, la memoria, vacilla sui dettagli riguardanti le sue forme, e la causa è presto detta.

Appena ci incontrammo IB tenne a precisare il desiderio di conservare la propria illibatezza per la prima notte di nozze e, in conformità a tale decisione, mai si sarebbe denudata al cospetto mio o di qualsiasi altro maschio fatta eccezione, ovviamente, del futuro consorte. Tale risoluzione era dovuta, sottolineò, per non cedere alla vertiginosa tentazione che viene a crearsi tra due corpi svestiti. Dal mio punto di vista le premesse per un erotico soggiorno sfumarono dopo pochi scambi di battute, e i 250 km percorsi con l’idea di introdurre il mio pene nella di lei vagina rischiavano di tramutarsi in una beffa bella e buona. La certezza di passare tre notti in albergo con me stesso come unico compagno era tutto fuorché eccitante ma, come si addice alle migliori sceneggiature, IB si rivelò a suo modo sorprendente.

Al giro turistico della città Alta, la ragazza bergamasca unì una smodata passione per il mio sedere (manifestata in continui palpeggiamenti) e una sana dimostrazione della propria arte nella pratica della fellatio manifestata nei posti più improbabili — che l’idea di mostrarmi i luoghi dell’infanzia fosse solo un pretesto, lo capii subito.

In IB, nonostante la mia ingenuità, percepii il bisogno spasmodico di scontrarsi con un passato opprimente. Mi regalò pompini davanti al collegio clericale frequentato per tutto il percorso scolastico; al campo di calcio in cui assisteva, senza mai partecipare, alle partite del fratello con gli amici; sotto al porticato usato dai clochard come tetto d’emergenza. E fu proprio qui, dopo aver raggiunto l’orgasmo, che mi avvidi della presenza di uno spettatore e quando lo feci notare IB rispose che, se ero stato condotto in quel luogo, un motivo doveva pur esserci. Ma, e qui lo confesso, la compagnia di IB e la bellezza di Bergamo Alta sono ricordi marginali rispetto a ciò che avvenne alla stazione ferroviaria.

L’ora convenuta con IB per l’incontro era mezzogiorno e, come spesso mi capita, vi giunsi con qualche minuto d’anticipo. Nel mentre decidevo se farmi una birra al bar, oppure trascorrere quei pochi minuti d’attesa in macchina, la vidi arrivare.

Aveva lunghi capelli corvini che le coprivano gran parte del viso, e un passo deciso nell’instabile equilibrio. Indossava una maglietta grigia, nel taglio simile a un camice ospedaliero, e dei jeans logori. Si sedette di fronte alla mia automobile e compì gesti precisi con estrema naturalezza. Scorsi nei suoi occhi un barlume d’estasi mentre l’eroina entrava in circolo. La vidi sorridere inebetita poco prima di cedere al torpore stupefacente. Alienato dalla situazione fui capace solo d’ingranare la retromarcia e andarmene, scordandomi pure di IB. Quello spettacolo, così crudo e ipnotico, lo sentivo (e tuttora lo è) troppo vicino e doloroso. La necessità di lasciarmelo alle spalle, cancellando dall’immaginario quegli attimi in modo definitivo, era un proposito che sentivo impellente. Fallii, e queste righe ne sono la testimonianza.

E mi dispiace ammettere l’incapacità di rendere partecipe te che leggi dell’atmosfera creatasi in quei pochi minuti a cavallo di un torrido mezzogiorno bergamasco inzuppato dal sudore di due perfetti sconosciuti. Due, come i pallidi volti imperlati di gelide gocce. Due, come i colori che poco si sposavano in quel triste quadro. Una pennellata verde, per descrivere l’aiuola in cui giaceva una delle innumerevoli solitudini di cui è costellata la vita; l’altra grigia, per una maglietta poco chic stagliata davanti alla facciata di una stazione.

E ora, cercando di attribuire un significato a un evento che chiedeva solo d’essere vissuto senza giudizio alcuno, mi pongo nudo davanti allo specchio per rileggere quegli attimi con sguardo esterno e conto le numerose cicatrici (tangibili e non) disseminate lungo il mio corpo. Minuscoli squarci come quelli presenti nell’avambraccio della giovane sconosciuta. Piccole lacerazioni che, se unite da un’ipotetica linea, tracciano la figura attuale che risponde al mio nome.


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È la nostalgia bastarda

È la nostalgia bastarda a fotterti con ricordi e sensazioni fasulle. Prendi a esempio stamattina. Esco di casa per bere un caffè con Sara dopo mesi dall’ultimo incontro e scopro il cielo terso anche se una leggera nebbia, creata dalle acque del Piave, sembra divertirsi a nascondere il mondo circostante. Mancano pochi minuti alle nove e il termometro segna 0°C e l’aria è pungente (tipica del post nevicata in quota) e carica di quegli odori del periodo a cavallo tra autunno e inverno. E la nostalgia bastarda mi sbatte in faccia vecchi ricordi lontani di quando facevo il militare nel Friuli. Riodoro i profumi portati dal vento e ricreo mentalmente le vette sagomate della Carnia in lontananza. Era tutto diverso, ecco la frase sciocca con cui i ricordi iniziano o terminano. Era tutto diverso: vocaboli inutili per bollare un passato “idilliaco” deformato. Correva l’anno dell’attentato alle torri gemelle, e dell’assegnazione della palma d’oro a Moretti per lo stupendo “la stanza del figlio”; in estate nasceva il secondo governo Berlusconi e nel febbraio iniziavo la mia vita da milite in coincidenza con la strage famigliare di Nove Ligure. E com’era la vita presso il famigerato EI, mi domanda qualcuno? A ripensarci sorrido ma, a quel tempo, mica ridevo tanto. Era l’attesa snervante di un evento che, ridotto all’osso, pareva essere solo un miraggio. Era la bolla di un mondo chiuso in se stesso. Gli unici momenti di vero svago erano i viaggi divertenti e spassosi in camion o automobile. Transitavamo per paesini dai nomi improbabili in cui gli anziani ciarlavano in una lingua quasi incomprensibile, e percorrevamo strade deserte in cui ci divertivamo a fare peripezie con l’automobile colorata come le nostre divise. E ci fu la volta in cui, complice una consegna alla caserma di Tauriano, Angelo e io prendemmo la motivata decisione di gironzolare tra i carro armati a bordo della nostra vettura verde vomito. Nemmeno al cospetto degli Antichi lovecraftiani lo stupore orrorifico avrebbe raggiunto simili picchi d’indicibile sorpresa. I cingolati seminatori di morte ci lasciarono letteralmente a bocca spalancata tanto che, per scacciare lo stato catatonico in cui eravamo piombati, nel ritornare al nostro reggimento pensammo bene di rischiare un cappottamento per colpa di un freno a mano troppo maldestro in pieno rettilineo. E poi ancora, in una giornata simile a questa, mi capitò di accompagnare all’aeroporto di Ronchi dei Legionari il cappellano del reggimento, un omino a tal punto impaziente di spiccare il volo che, forte del proprio grado di Maggiore (chissà se guadagnato sul campo) intimò me e l’autista di sorvolare su divieti e sensi unici perché voleva bersi un caffè in tranquillità prima della partenza. Forse fu dovuta a quella commistione tra forze divine e militari se la folle corsa si risolse con un enorme successo tempistico tanto da garantirci una benedizione da parte del cappellano con relativo santino che, non appena girai i tacchi, gettai nella pattumiera. O forse fu solo la classica botta di culo. E fu sempre in una giornata di cielo terso a cavallo tra autunno e inverno a rivelarmi quanto, nei mesi targati EI, fossi stato vicino alla casa d’infanzia di quel Pasolini che, anni dopo, “incontrai” negli Scritti Corsari — lettura tanto speciale da cambiare la mia vita. Sì, la nostalgia è bastarda, e in giornate come quella odierna mi fotte coi suoi ricordi deformati ma, lo confesso, senza di essa la vita sarebbe insipida.


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il ponte vecchio di Borgo Piave – Belluno