

Hai mai sentito parlare dell’ora blu? Si tratta di un momento di passaggio; un breve istante in cui la notte e il giorno si sfiorano, lasciando la vita in sospeso: gli animali notturni si coricano, quelli diurni si preparano al risveglio. È il momento di quiete assoluta in cui la natura silente si lascia avvolgere, per l’appunto, dalla luce blu.
Da buon mattiniero quale sono mi è capitato, in alcune rare occasioni, di assistere a questo incredibile passaggio. Una fioca luce disegna le sagome dei monti, e il cielo si mostra in un blu intenso come solo poco prima dell’alba lo si può ammirare. E in sottofondo la quiete della natura regna fino al momento in cui il canto degli uccelli esplode, sancendo in questo modo la conclusione dell’ora blu. E credimi, è impressionante sentire la natura svegliarsi con un’unica ondata di suoni quando, poco prima, hai accarezzato il silenzio assoluto. Il contrasto tra pace e forza vitale ti rapisce per poi guidarti verso un nuovo giorno.
È un istante da vivere. Ho scoperto questo preciso momento della giornata qualche anno fa e da allora, appena la natura sembra predisposta a donare questa magia, colgo l’occasione per gustarmi questo breve istante. Se sei mattiniera/o, e vivi in campagna, ti invito a provare, almeno una volta, a cercare il momento esatto in cui la magia accadrà ma, inutile sottolinearlo, l’ora blu si fa ammirare solo nei momenti di cielo terso, o poco velato.
Se vuoi scoprire altro riguardo l’ora blu ti consiglio questo bellismo film di Rohmer: https://amzn.to/3uF99mA
Essere mattinieri, di questi tempi, ha il suo vantaggio. Alle 06.30 del mattino Ponte nelle Alpi è vuota, se escludo i merli e le gazze ladre svolazzanti sui prati o appollaiate su qualche tetto o cancello. Una leggera pioggia mi accarezza il viso, e l’aria gelida preannuncia neve in quota – il brivido lungo la spina dorsale è l’inequivocabile conferma a ciò che verrà.
In questa mia passeggiata di libertà incrocio una donna in compagnia di un magnifico lupo cecoslovacco e il titolare del piccolo alimentari del centro. Osservo due pattuglie dei carabinieri perlustrare le strade, e guardo i lavoratori del supermercato prepararsi al proprio turno. Qualche macchina sfreccia sonnolenta. Tutto è fermo, salvo i pensieri. Viaggiano liberi fottendosene del contagio, ed è giusto così. E intasano la mente con migliaia di domande, egoiste e non.
Mi domando se al termine di questo periodo avrò ancora un lavoro – e conseguenti paure. Penso a mia madre, debilitata, augurandole(mi) non si infetti. E penso a coloro in prima linea e alla prova psicofisica che stanno affrontando. A chi sta comunque lavorando, e alle comprensibili paure nello stare vicino a colleghi e/o clienti. E il pensiero va a chi ha vissuto lutti in questi giorni, e all’impossibilità di esternare il dolore in un rito funebre che è sempre liberatorio.
Ed è per tutto questo, e altro ancora, se sono uscito di casa. Perché camminare è un esercizio spirituale. E se mi vedete sprovvisto d’ombrello, non preoccupatevi. Prendere la pioggia è un’ottima terapia per lavare i pensieri funesti e caricare il corpo con nuove energie.
Se siete alla ricerca di qualche lettura ho pubblicato due brevi recensioni di due volumi tutti al femminile. Se cliccate sul titolo del libro andrete direttamente alla pagina. Buona lettura!
la mia silloge Di luce e di oscurità
Se ne sta distesa sul bancone sorreggendo la testa con la mano a formare un triangolo equilatero. Lo sguardo annoiato rivolto ai passanti completa il quadro.
Sopra la di lei testa, appeso alla parete a cui dà le spalle, un maxi schermo proietta una partita di hockey. Tizzi scivolano con maestria sul ghiaccio rincorrendo un dischetto. Lo colpiscono con mazze a forma di L altrettanto annoiata. Nella postazione collocata alla di lei destra, il collega scruta un piccolo monitor agitando febbrilmente le dita. Pare poco propenso a intavolare una discussione, sia pure superficiale. E lei pare arenarsi nel tedio.
Io, passando con andatura spedita, nell’istante di un’occhiata memorizzo più dettagli possibile.
Lei ha i capelli mori raccolti in uno chignon imperfetto. Il collega indossa occhiali, e sfoggia una sottile striscia di barba che, correndo da basetta a basetta, ricopre il mento. Forse è solo un gioco della memoria che tenta di ingannarmi creando l’immagine ideale. La noia di lei però è autentica. Come lo è il rosso dominante all’interno del negozio, e i cellulari esposti sugli scaffali.
Getto un ultimo sguardo distratto verso il monitor. Sopra, tizi sul ghiaccio si scambiano effusioni maschili. Sotto, lei si abbandona al tedio. Alzo il bavero del cappotto e aumento il passo per ripararmi dal vento gelido. Come lei, da postazione differente, rivolgo ai passanti uno sguardo annoiato. Inconsapevolmente, rientro nel quadro.
Cliccate QUI, troverete altri racconti interessanti!
E se vi piace la poesia non vi rimane che pigiare QUI
Ieri mattina ho bevuto un caffè, scambiando qualche chiacchiera, in un’osteria che stasera chiuderà in modo definitivo dopo una storia lunga 100 anni.
Ho scritto un articolo che parla di Lina, e di come siano destinati a spegnersi i piccoli paesi di montagna.
Se volete conoscere la storia di questa ragazza potete leggere l’articolo cliccando QUI
È cominciato un mattino. O per meglio dire, la mia presa di coscienza è iniziata quel mattino.
Mi sveglio con la nausea. Non un post-sbornia, né un malessere dovuto a intolleranza alimentare. Il desiderio di vomitare è forte: un’esigenza. E oltre alla necessità di espellere dal mio corpo una sensazione quanto mai sgradevole, si aggiungono le notti insonni, gli incubi, l’inappetenza, e una forte compressione al plesso solare. Faccio una ricerca in rete (quanto può essere utile, a volte) per capire a cosa siano dovuti i sintomi. Mi crolla il mondo addosso. Ora vedo le cose nitidamente.
Mobbing.
Le continue vessazioni e i piccoli richiami -costanti e a volte ingiustificati- che mi vengono rivolti, a fine giornata divengono una frana travolgente.
Sono imprigionato in uno stadio apatico, e di sottomissione. E lo smacco maggiore è che credevo di essere al riparo da certe logiche intimidatorie.
A mio favore gioca la presa di coscienza: decido di passare all’azione. Mi informo per risolvere, il prima possibile, questo disagio e scopro che le opzioni, per chi firma un contratto a termine, sono poche. Decido di stringere i denti, e andare avanti. Mi si prospettano 22 giorni (compreso oggi, 13/10/2018) prima che il contratto lavorativo scada, e ho trasformato il calendario in un campo di croci (usanza esportata dalla naja). Vivo un lento conto alla rovescia prima di riacquistare la libertà. E impreco contro il tempo, tiranno e malandrino, che si diverte a dilatarsi o restringersi a seconda delle esperienza vissute al momento.
Ho deciso di non dilungarmi oltre, né essere prolisso. Lo scopo è di stimolare la curiosità. Se, leggendo questo piccolo resoconto, vi sorgono domande, non fatevi scrupoli a chiedere. Risponderò, per quanto concerne la mia piccola esperienza. Il mobbing (lo sto scoprendo mio malgrado) è un processo logorante; sia per il fisico, sia per la mente. Meglio conoscerlo prima!
Lo incrocio con cadenza quasi regolare. Ha lo sguardo leggermente triste, e il cagnolino al seguito. Il nome, come mia consuetudine, non lo ricordo e sul suo, in particolare, è calata una nebbia fitta. Eppure…
Eppure ricordo il giorno in cui lo conobbi: 07 dicembre 2017.
Ricordo una ragazza di origine spagnola. Teneva stretto al petto con la mano sinistra il proprio, di cagnolino. Nella destra reggeva una sigaretta. Lasciò si consumasse in una lenta e bruciante consunzione senza mai fare un tiro.
Ricordo madre e figlia (nella mia testa honduregne) dall’accento centro-sudamericano. Stupende nella loro creola bellezza. Sei muy dolze, ripeteva la madre guardandomi – sudato e puzzolente come un caprone – in quel pomeriggio velato di grigio. Pareva volesse abbracciarmi dalla commozione. Io, ciondolante davanti all’unico ufficio vuoto e spento del canile di Belluno, cercavo di calmare un povero cagnolino. Lo stesso cagnolino che incontro in compagnia dell’uomo dallo sguardo triste.
Chissà se quegli occhi si velano di tristezza nel vedermi. La condivisione di un momento particolare ci lega, e ci allontana. Inevitabilmente. Ci scambiamo un sorriso indeciso e proseguiamo, ognuno per la propria strada.
Forse passerà ancora del tempo prima che si riesca a scambiare qualche parola. È naturale. È, comunque, il nostro addolorato segreto.
P.S. quella stessa sera avrei presentato per la prima volta Diafonie. Microfisica dei piccoli gesti, e se siete curiosi di scoprire qualcosa, vi basta cliccare QUI
Plenilunio.
Alle due esco di casa per godermi le tenebre. I sogni, spezzati in modo brusco da un attacco d’insonnia, sono assai lontani. Aggirarsi per le strade silenti, annusando l’aria carica dei profumi notturni, è più allettante. Incontro vie deserte; alcune vestite di buio. Ponte nelle Alpi, all’apparenza, mi appartiene. E nel girovagare senza meta i piedi, dotati di coscienza propria, mi trascinano verso la stazione. Poche luci illuminano il buio, dando inizio a una nuova storia.
Il vuoto sperato
risiede nell’imperfezione
(la mia)
Di là del vetro, nevica
sugli alberi defunti,
le nubi vestono i monti,
un cane abbaia al passato.
Mi accorgo imperfetto
nei giorni nevosi,
e comprimendo l’impalpabile
in piccoli grumi,
penso.
Le 5,
e una manciata di minuti.
Nel palmo, un segreto.
Custode di verità
scomode, m’adagio
note grigie.
Occhi vitrei,
respiro assente.
È un battito
assente.
Candide le cime,
un tubetto di colla
collassa su sé stesso.
Sfoglio un dossier
tra schiamazzi adolescenziali;
è di Magritte.
Mercoledì mattina:
pioggia svogliata,
caffettiera fredda,
Magritte è muto
e la colla collassa.