Oggi piove

Oggi piove, e l’aria è carica del gelo dovuto alla neve che arriverà. Lo so grazie alla solita sensazione lungo la spina dorsale. Il mio sensore personalizzato che indica cosa accadrà.

Oltre alla pioggia ci sono degli operai, dalla parlata trevigiana, al di là della vetrata. Fanno battute concernenti i frequentatori del Piave.

«I và in xerca de capełoni» e, sentendoli ridacchiare, la voglia di chiedere loro come facciano a essere così informati sulla materia, è tanta. Parlate per esperienza? Ma lascio perdere e ascolto le battute di basso rango a cui seguono risate forzate. Sentire lo straziante sarcasmo, e quel falso divertimento, mi stimola un unico pensiero: gettarli di peso nel Piave – ogni tanto mi scatta la sana violenza, è uno dei molti pregi che tendo a nascondere.

Ora si trovano sopra la mia testa, intendo al piano di sopra, e sistemano sedie e arredo per i vari uffici. Allestiscono una nuova realtà prossima all’apertura. E se salissi per immortalarli in una fotografia da caricare sul blog e dare così un impatto visivo a queste parole? Temo però, udite mio malgrado le battute con cui hanno riempito la mattinata di riferimenti fallici, sarebbero capaci di abbassarsi i pantaloni per mostrare la mercanzia e dare il tocco finale alla goliardata. Magari assumendo le stesse pose tenute dal sottoscritto, ‘l Dur, e J. C. di Pittsburgh qualche anno fa.

Siamo sulla A27, precisamente all’aera di sosta Piave Ovest, muniti di una macchina fotografica usa e getta, e in preda ai fumi dell’alcol. Stiamo tornando a casa dall’ennesimo concerto metal (non ricordo quale purtroppo) e nelle nostre menti annebbiate risuonano gli echi delle note metalliche. Ci facciamo una birra (giusto per mantenere il livello di sbronza), e ci sfondiamo con quello che in veneto amiamo definire panìn onto. J. C. di Pittsburgh emette un rutto degno di un a solo di Mike Terrana e controlla l’indicatore dei fotogrammi rimasti a disposizione. Carica la macchinetta e insiste per farci una foto stipati dentro la cabina telefonica. Esaltati dall’alcol eruttiamo la brillante idea di imprimere sulla pellicola sederi e testicoli lì, in una triste stazione di servizio alle 3 di notte urlando contro Satana e i camosci.

E poi le risate. Scoppiano fragorose e irresistibili – non come quelle degli operai sopra la testa. Le nostre sono sane e alcoliche, divertite e spensierate. Le risate esilaranti di chi immagina la faccia che farà lo sfortunato sviluppatore del rullino.

Era una notte nei primi anni del 2000 e, come oggi, l’aria era fredda e piovigginava un po’. Il metal era una costante di molte serate e noi, come bambini discoli, esibivamo i gioielli di famiglia fregandocene del mondo imprigionato fuori dalla cabina telefonica.


P.S. oggi comunque non piove, questo racconto l’ho scritto ieri


a proposito di Mike Terrana… inconfondibile alla batteria

Ho scordato il nome della ragazza con cui sono uscito per mesi

Ho scordato il nome della ragazza con cui sono uscito per mesi. Nella memoria sono impressi i suoi occhi verdi, i lunghi capelli biondi, le fattezze del viso e le curve invitanti del corpo. Era di Santa Lucia di Piave, e aveva pressappoco la mia età. Appassionata di storia dell’antico Egitto, parlava in continuazione di faraoni e scavi archeologici, argomenti che, al sottoscritto, interessavano poco o nulla.

Eravamo soliti fare colazione assieme, soprattutto la domenica. Entrambi mattinieri, ci davamo appuntamento a Conegliano nel momento in cui molti individui concludevano la nottata di bagordi. Lei prendeva caffè al ginseng e una brioches che centellinava in piccoli bocconi, io caffè nero e cornetti che divoravo come non ci fosse un domani. Altre volte ci vedevamo di sera (mai per cenare assieme) e in una di queste uscite, oltre a presentarmi la sorella, mi portò all’evento organizzato da un “medico” di cui seguiva le gesta – se uso le virgolette un motivo c’è. La serata in questione si tenne a Oderzo, forse alla biblioteca civica, e verté sulla crescita interiore.

La prima cosa che mi balzò agli occhi, oltre al gran numero di presenti, erano i seguaci del sedicente medico. Indossavano tute nere e calzavano scarpe del medesimo colore. Con le braccia incrociate sul petto, presidiavano ogni uscita. Rappresentavano l’ultimo livello di una scala evolutiva studiata da quello stesso medico che, nel giro di pochi minuti, fece il proprio ingresso in sala. Parlò per oltre un’ora senza pause e a fine serata dimostrò nella pratica l’arte di cui era dotato. Scelse tra il pubblico la ragazza che, visibilmente, era più in difficoltà, e l’ipnotizzò – qui arriva la parte schifosa. Mentre la giovane era in trance, il medico la invitò a confessare alla platea di quale malattia soffrisse. Lei rispose. Al termine dello stato catatonico il tipo chiese al pubblico di ripetere il segreto che la ragazza aveva svelato. Seguì il pianto di umiliazione di lei ma il medico, abile nel manipolare le menti deboli riuscì, nell’ordine, a calmarla (prima) e iscriverla (poi) a uno dei propri corsi promettendole una sicura guarigione. Il tutto si concluse con un fragoroso applauso, e la mia indignazione assoluta. Il rapporto con la ragazza di cui ho scordato il nome, da quel momento, iniziò a incrinarsi. Ma era un rapporto, il nostro?

L’ho frequentata per mesi, e nello stesso periodo lei usciva pure con un poliziotto (una guardia carceraria a Santa Bona) perché indecisa tra chi scegliere dei due. E in quelle stagioni tra colazioni e drink post cena, mai un bacio riuscii a strapparle, figuriamoci altro. Non permetteva alcun contatto, e il sesso era esclusivamente un resoconto delle gesta compiute dalle sue colleghe. Parlandone con L, un’amica psicologa, mi spiegò che questi atteggiamenti (e altri che tengo celati) sono tipici di chi soffre di disturbi legati all’alimentazione. Fu in seguito alle parole di L che notai l’insolita magrezza di quel corpo (salvo per il seno abbondante) a cui non avevo accesso. Continuai a fare colazione assieme a lei, e a uscirci il sabato sera finché, sul finire dell’estate, mi resi conto di essere una pedina (assieme alla guardia carceraria) di un gioco destinato a non avere fine. Il rapporto (se è possibile definirlo tale) si concluse che uno scambio di sms che ancora ricordo – a differenza del nome, e con la mia risata liberatoria.

Ed è curioso il fatto che, nonostante sia un maschio molto attratto dalle forme femminili, con lei abbia inaugurato un periodo della vita caratterizzato da frequentazioni (di varia natura) con ragazze affette da disturbi alimentari.

P.S. confesso di aver stilato una lista di nomi femminili per associare il volto impresso nella memoria, ma l’azione è risultata vana…

Borgo Piave

Capita associ persone (importanti o meno) a luoghi specifici, e credo sia una prassi comune a tanti e a tante.

Può essere il ricordo del primo bacio, oppure di un appuntamento tanto desiderato. Può capitare per un fatto spiacevole o traumatico, o per un avvenimento inspiegabile. Imprimiamo, in noi stessi, il volto di una persona in un luogo specifico per sprigionare la magia del ricordo. Perché, in fin dei conti, c’è qualcosa di magico nell’associazione volto-luogo. È un legame che crea sogni, visioni, emozioni.

Ne ho molti, di questi luoghi, e tutti sono associati a situazioni strane e simpatiche. L’ultimo, in ordine di arrivo, è un quartiere di Belluno: Borgo Piave. La “scoperta” è merito di I. che, durante una serata in cui rifuggivamo la presenza umana tra Longarone e Belluno, mi ha condotto in questo quartiere molto affascinante. Ci siamo distesi sull’argine del Piave, e lì abbiamo concluso la nottata parlando del più e del meno.

Dovete sapere che il rapporto con I. si può definire amicizia intima; e in questa amicizia il sesso è un’esperienza speciale. Se ci guardo dal di fuori, mi pare di osservare due bambini mentre compiono una marachella. Ridiamo spensierati scambiandoci aneddoti e racconti e, lo confesso, con lei il sesso è pura spensieratezza. Per me equivale a rilassamento fisico e intellettuale. E sorrido per questa associazione tra I. e Borgo Piave, un quartiere costruito a ridosso della sponda destra del Piave che ti invita a salire a Belluno percorrendo a piedi il centro storico ricco di angoli sinuosi e vicoletti dai lineamenti misteriosi.

Sorrido perché il Piave è parte costante della mia vita. Mio padre è cresciuto a stretto contatto (lato sinistro) con questo fiume, e da tre anni ci vivo vicino pure io. Tra i tanti aneddoti legati al fiume caro alla Patria, nella provincia di Treviso è importante precisare da che lato si proviene. Destra Piave sta a indicare la pianura, l’accento veneto molto marcato nella parlata, e un’apertura mentale che si riscontra meno per chi è nato nella Sinistra, come il sottoscritto. E, tra questi aneddoti, ce n’è uno in particolare con protagonista mio padre.

In gioventù (lo confessò una sera) i carabinieri gli sequestrarono tre Guzzi e 7 barra 8 automobili (il numero esatto non lo ricordava) perché si divertiva a partecipare/organizzare gare clandestine sul letto del fiume interessato dall’estrazione di ghiaia. E quando gli chiesi che fine fecero quei bolidi, papà –ridendo come un bambino colto sul fatto mentre compie una marachella– rispose che forse erano ancora nel deposito dell’Arma. «Mi vergognavo troppo per andare a riprenderli –al tempo erano meno fiscali– e così» disse divertito «dopo ogni sequestro, mi compravo un’altra moto o una macchina». E mi fa ridere ripensare al suo volto mentre mi raccontava le imprese al volante perché ho lo stesso sguardo bricconcello mentre ripenso ai giochi con I., colei che, in una notte passata a zonzo tra Longarone e Belluno, mi portò a Borgo Piave per fuggire dal marasma umano imprimendo così un nuovo ricordo nella mia mente già satura di associazioni bislacche.

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