Novembre

Novembre è il mio mese preferito. Per i colori del bosco. Per i cieli pallidi e le prime nevicate. Per le foglie morte e le gelate. Per il clima che si respira prima del gelido inverno. Per i ricordi piacevoli che sempre mi evoca, e per la malinconia di cui è ammantato. E poi ci sono i Novembre, capaci di tradurre in modo fantastico quella stessa nostalgia.

È la nostalgia bastarda

È la nostalgia bastarda a fotterti con ricordi e sensazioni fasulle. Prendi a esempio stamattina. Esco di casa per bere un caffè con Sara dopo mesi dall’ultimo incontro e scopro il cielo terso anche se una leggera nebbia, creata dalle acque del Piave, sembra divertirsi a nascondere il mondo circostante. Mancano pochi minuti alle nove e il termometro segna 0°C e l’aria è pungente (tipica del post nevicata in quota) e carica di quegli odori del periodo a cavallo tra autunno e inverno. E la nostalgia bastarda mi sbatte in faccia vecchi ricordi lontani di quando facevo il militare nel Friuli. Riodoro i profumi portati dal vento e ricreo mentalmente le vette sagomate della Carnia in lontananza. Era tutto diverso, ecco la frase sciocca con cui i ricordi iniziano o terminano. Era tutto diverso: vocaboli inutili per bollare un passato “idilliaco” deformato. Correva l’anno dell’attentato alle torri gemelle, e dell’assegnazione della palma d’oro a Moretti per lo stupendo “la stanza del figlio”; in estate nasceva il secondo governo Berlusconi e nel febbraio iniziavo la mia vita da milite in coincidenza con la strage famigliare di Nove Ligure. E com’era la vita presso il famigerato EI, mi domanda qualcuno? A ripensarci sorrido ma, a quel tempo, mica ridevo tanto. Era l’attesa snervante di un evento che, ridotto all’osso, pareva essere solo un miraggio. Era la bolla di un mondo chiuso in se stesso. Gli unici momenti di vero svago erano i viaggi divertenti e spassosi in camion o automobile. Transitavamo per paesini dai nomi improbabili in cui gli anziani ciarlavano in una lingua quasi incomprensibile, e percorrevamo strade deserte in cui ci divertivamo a fare peripezie con l’automobile colorata come le nostre divise. E ci fu la volta in cui, complice una consegna alla caserma di Tauriano, Angelo e io prendemmo la motivata decisione di gironzolare tra i carro armati a bordo della nostra vettura verde vomito. Nemmeno al cospetto degli Antichi lovecraftiani lo stupore orrorifico avrebbe raggiunto simili picchi d’indicibile sorpresa. I cingolati seminatori di morte ci lasciarono letteralmente a bocca spalancata tanto che, per scacciare lo stato catatonico in cui eravamo piombati, nel ritornare al nostro reggimento pensammo bene di rischiare un cappottamento per colpa di un freno a mano troppo maldestro in pieno rettilineo. E poi ancora, in una giornata simile a questa, mi capitò di accompagnare all’aeroporto di Ronchi dei Legionari il cappellano del reggimento, un omino a tal punto impaziente di spiccare il volo che, forte del proprio grado di Maggiore (chissà se guadagnato sul campo) intimò me e l’autista di sorvolare su divieti e sensi unici perché voleva bersi un caffè in tranquillità prima della partenza. Forse fu dovuta a quella commistione tra forze divine e militari se la folle corsa si risolse con un enorme successo tempistico tanto da garantirci una benedizione da parte del cappellano con relativo santino che, non appena girai i tacchi, gettai nella pattumiera. O forse fu solo la classica botta di culo. E fu sempre in una giornata di cielo terso a cavallo tra autunno e inverno a rivelarmi quanto, nei mesi targati EI, fossi stato vicino alla casa d’infanzia di quel Pasolini che, anni dopo, “incontrai” negli Scritti Corsari — lettura tanto speciale da cambiare la mia vita. Sì, la nostalgia è bastarda, e in giornate come quella odierna mi fotte coi suoi ricordi deformati ma, lo confesso, senza di essa la vita sarebbe insipida.


i miei racconti li trovi QUI

le mie poesie le trovi QUI

il ponte vecchio di Borgo Piave – Belluno