Eccomi a scrivere di notte svegliato dall’insonnia

Eccomi a scrivere di notte svegliato dall’insonnia. Con cadenza mensile capita mi svegli verso l’una e, fino allo spuntar del sole, rimango vittima di una veglia inopportuna. Almeno stanotte riesco a dare un senso compiuto ai pensieri pigiando i polpastrelli sulla tastiera. Molti dei miei racconti nascono nelle notti insonni per poi, al mattino seguente, rimanere idee sconclusionate nella sintassi. Pezzi illogici di storie scarabocchiate su fogli rigati, oppure ricreate attraverso la mediazione del monitor. Comunque sia, è l’una, e sono sveglio.

La guancia sinistra è rigata da una lacrima. Quell’unica goccia ha lasciato un solco che se ne andrà via con dell’acqua gelida. È la traccia che i sogni, elaborati nelle poche ore di sonno, percorrono per poi svanire nel ricordo annebbiato del risveglio. È una lacrima solitaria che mi tiene compagnia, e di dormire, non se ne parla. Con il monitor acceso, e le parole che si susseguono cercando di stare al passo con i lampi del pensiero, ascolto uno di quegli album che riservo per la notte. Musica da ascoltare quando l’oscurità è alta, e il silenzio del mondo è una carezza di raso vellutato.

Il mese scorso, in una notte simile a questa, cercavo di entrare in sintonia con un gatto dal pelo rosso. Se ne stava seduto sul marciapiede di fronte e miagolava nella mia direzione intavolando un discorso nella sua lingua ignota. Sorseggiando il caffè, emettevo quei versetti idioti che chiunque produce quando si trova al cospetto di un gatto. Poi un urlo persistente ha interrotto quel nostro intimo dialogare.

«Va via» urlava un’anziana dalla casa di riposo nascosta dagli alberi. Io e il gatto ci siamo girati verso la provenienza del lamento disperato, ascoltando rapiti la supplica della donna. Solo nel momento in cui il felino ha deciso di viversi la notte nella casa diroccata lì vicino, sono riuscito a chiudere la finestra e accendere lo stereo per coprire il lamento. Al mattino, dopo aver sonnecchiato poco più di un’ora, credevo d’aver scordato il gatto e le grida. Per me erano divenuti classici avvenimenti insignificanti che colleziono nelle notti insonni per poi lasciare si riempiano di polvere in qualche scatolone nella soffitta della mia memoria. Fu il carro funebre, che incrociai mentre andavo al mercato, a sbattermi in faccia un gelido ceffone. Percorreva il viale della casa di riposo, alla velocità che meglio si addice a mezzi progettati per quell’unico scopo, dirigendosi verso la palazzina incriminata.

«La vecchia ha visto la morte». La mente mi martellava con questi stupidi pensieri, e un brivido bastardo passeggiava lungo la spina dorsale punzecchiando ogni mia vertebra. E provai a scrivere di getto quelle sensazioni per trovare conforto nei raggi solari, ma alla luce diurna le sensazioni provate mi parvero false e sconclusionate come molti dei miei racconti. Ho dovuto attendere l’ennesima notte di veglia per riprodurre questa piccola vicenda sulla tastiera ma, nonostante i pensieri abbiano acquisito consistenza, l’incompiutezza continua a tormentare i ricordi.

Ed eccomi a scrivere di notte in compagnia dell’insonnia. Sono circa le tre, e Spirit of sorrow continua a riempire la mia notte. I polpastrelli si sono sbizzarriti con la tastiera e forse domattina avrò dimenticato questo scritto pubblicato in questa notte di fine estate.