Pareva uno zombi. L’altro ieri, mentre ero fermo allo stop, sono rimasto allibito nel vedere un tizio attraversare la strada incurante di tutto. Testa china sul cellulare, seguiva le ombre di altri pedoni senza prendersi la briga di controllare se la luce del semaforo fosse verde. Camminava, in una specie di trans idiota, impossibilitato dallo staccare gli occhi dal piccolo schermo. Strada, marciapiede, un cratere. Poco importa cosa ci fosse davanti ai sui piedi. Camminava per inerzia in una cecità a occhi aperti. E non è il primo. È un virus dilagante pronto a infettare chiunque – e non solo i ragazzini.
Basta così poco per rincoglionirci e privarci dell’uso della ragione e del buon senso? È di così vitale importanza ciò che il telefono mostra? Siamo sempre disponibili, ma per cosa? Per chi?
Questa nuova dipendenza dove ci porterà? Le cliniche del futuro disintossicheranno dall’uso spasmodico dei social e giochi on-line? Dal sesso digitale – mi mette i brividi pensare a un rapporto senza odori e umori!
Mi mettono i brividi questi sguardi sempre chini incapaci di cogliere il reale.
La solitudine è mia compagna di viaggio da sempre. Sin da bambino ho coltivato questa relazione, e anche se in certi momenti ho percepito il suo peso gravare sulle spalle, negli anni ho apprezzato questa singolare presenza perché mi ha letteralmente accompagnato nella scoperta di me stesso.
E i ricordi più intensi li associo proprio nei momenti di solitudine. Mentre sono intento a camminare nei boschi o per monti, o contemplando il mare d’inverno. Momenti in cui il mondo esterno e i pensieri si fanno silenti, e il mio ego si annulla grazie a ciò che lo sguardo abbraccia.
La solitudine è continua scoperta, e credo che la seguente definizione di Hillman racchiuda al meglio la forza generatrice di questa particolare compagna.
La solitudine viene e va indipendentemente dalle misure che possiamo prendere. Non dipende dall’essere soli, letteralmente, perché si possono provare fitte di solitudine mentre siamo in mezzo ai nostri amici, a letto con l’amante, al microfono davanti a una folla osannante. Quando i sentimenti di solitudine sono visti come archetipi, ecco che diventano necessari; che non sono più annunciatori di colpe, di terrori, di uno stato morboso. Possiamo accettare la misteriosa autonomia di questo sentimento, liberando la solitudine dall’identificazione con l’isolamento letterale. Oltretutto, una volta situata sul suo sfondo archetipo, la solitudine non è sempre e principalmente spiacevole. Se guardiamo (o meglio sentiamo) da vicino il senso di solitudine, scopriamo che è composto di diversi elementi: nostalgia, tristezza, silenzio e un anelito dell’immaginazione verso «qualcos’altro» che non è qui e ora. Perché queste componenti e immagini si mostrino, dobbiamo innanzitutto mettere a fuoco l’attenzione su di esse., anziché su come rimediare al fatto di essere soli in senso letterale. La disperazione diventa più brutta quando cerchiamo delle vie per uscirne.
Verne – Materia (2006) Carmelo & Giuseppe Orlando, Massimiliano Pagliuso
Ho visto 4 concerti dei Novembre: Treviso, Milano, Padova, Dinkelsbühl. Ricordo ancora il primo, al New Age. Era il tour di presentazione di Novembrine Waltz, e i Novembre dividevano il palco con altri gruppi metal italici. E il sottoscritto era lì, in quello strano incrocio del New Age in cui ingresso dei camerini, bagni e bancone del bar convergevano in un unico punto. Ero lì. In attesa di una birra e dell’esibizione della prossima band. Sentii una gran pacca sulla spalla e girandomi, pronto per “mandare in mona” quello che credevo fosse un amico in vena di scherzi, mi ritrovai davanti Carmelo che mi disse Grande! Gran bella maglietta.
È difficile spiegare, a chi non segue la musica heavy metal, lo strano rapporto che c’è tra le band e i fan. È difficile spiegare la gioia di un ragazzo (poco più che ventenne) che si ritrova davanti al muso la faccia sorridente di uno dei suoi idoli. Ed è difficile spiegare quanto siano importanti, per i metallari, le magliette. Sono un tratto distintivo, un veicolo per trasmettere, oltre all’amore per un genere, anche le sensazioni/emozioni che un gruppo rappresenta.
Conservo ancora quella maglietta. Dopo 20 e più è ancora intatta, salvo per il colletto strappatosi dopo un concerto dei Grave Digger. L’ho conservata perché ho molti ricordi legati a essa e ai Novembre. Ricordi che si tramutano in sorrisi, e non solo. E per uno abituato a non conservare oggetti tangibili del passato, è davvero un fatto singolare. Singolare come la musica dei Novembre.
Sono un animale solitario, fino dalla tenera età. Ho ricercato, e convissuto molto con la solitudine, compagna di viaggio amata, odiata, derisa, e maledetta. A volte mi fa apprezzare la ompagnia, altre mi ricorda di quanto sia più interessante dialogare con me stesso per sondare i pensieri e i sentimenti.
La solitudine è una peculiarità che sento mia ma, a oggi, non ho ancora raggiunto la solitudine giusta.
Non si è ancora arrivati alla solitudine giusta, quano ci i occupa di sé stessi.
Parlo di lei in quanto lavora nello stabile in cui sono impiegato. Parlo di lei perché quel suo modo di “esprimersi” ha innescato una serie di domande che, nel tempo, hanno prodotto in me riflessioni e decisioni significative.
Osservare gli altri è un veicolo per indagare sé stessi, dicono, e lei, di cui non conosco nome né età, rappresenta un ottimo specchio su cui riflettere/riflettermi.
Due anni circa è lo spazio temporale di questa “conoscenza” virtuale. Due anni in cui, salvo rare eccezioni, non son o riuscito a cogliere il suo sguardo.
1) indossa sempre occhiali dalle lenti fumé
2) i suoi occhi sono incollati al telefonino
L’osservo scendere dall’automobile con lo smartphone incollato al palmo come fosse un prolungamento del suo corpo. La sua attenzione è tutta raccolta lì, su quella mano. Snobba la portiera quando la chiude, né presta attenzione alla strada mentre l’attraversa – per fortuna la via è cieca e transitano pochi veicoli. Percorre il tragitto digitando compulsivamente, e sale le scale, gradino dopo gradino, sempre con gli occhi puntati sul piccolo schermo.
A memoria, credo di averla guardata tre volte negli occhi in questi due anni: piccola concessione da parte dello smartphone.
Osservandola, ho indirizzato l’attenzione su me stesso. Quante volte, inconsciamente, ho allungato il braccio in cerca del telefono alla ricerca di conferme ?! Quanto tempo spreco alla ricerca dell’insignificante e quanto permetto a certe piattaforme di deformare la mia personalità?
Osservarla mi aiuta ad analizzarmi, e agire di conseguenza. Imparo a staccare la connessione dalla rete, e a fare una drastica pulizia del web inutile.
E grazie a lei capisco quanto possano essere tossiche certe relazioni, che si riferiscano a un compagno/a, a un rapporto lavorativo, o sostanze varie.
Lei mi mostra cosa sia l’alienazione e, per ricordare a me stesso quanto sia più elettrizzante la realtà, prima di entrare in atelier alzo lo sguardo sulle Dolomiti e fischio i cani al di là della strada che, felici o infastiditi di vedermi, abbaiano senza ritegno.
P.S.ho battezzato i miei vicini canidi “i 4 cavalieri dell’Apocalisse” perché, quando sfreccia un ciclista, si lanciano in una cavalcata fiera e imperiosa.
Sono settimane ormai, volente o meno, che assisto a scene e atteggiamenti che mi inducono a riflettere sul concetto di rispetto. A volte vorrei sottrarmi a tali viste ma, se apro o chiudo la finestra, o esco sul terrazzo, mi è impossibile non notarle. E poi, lo confesso, mi piace osservare le persone, soprattutto perché, anche se impossibilitato a causa della distanza dal sentirne i discorsi, leggo, tramite le posture del corpo e le espressioni facciali, le emozioni in gioco. Tipo stamane.
Lei, rannicchiata dentro l’abitacolo dell’auto e lui, in piedi, ma con il busto a invadere quell’abitacolo stesso come a serrarla in una gabbia, che cerca di spiegarle chissà quale cosa. E lei non parla, lo si vede benissimo, e tiene la testa di lato con mento alto e sguardo lontano anni luce dalla traiettoria di lui. Forse la storia è agli sgoccioli e i sorrisi scambiati fino a pochi giorni prima sono ormai relegati al passato remoto. Ed è proprio vedendo queste loro ultime posture rigide e distanti che ho iniziato a riflettere sul rispetto.
Lui, col modo violento di imporre la propria fisicità all’interno dell’abitacolo, ha capito di violare comunque un’intimità?
Lei, muta nella propria distanza, si è chiesta se, nel varcare certi confini si è poi in grado di procedere in un territorio sconosciuto?
In passato ho visto alcuni dei loro incontri. Ho sentito lei, nel silenzio mattutino, civettare al telefono o corrergli incontro solo per un breve saluto prima della routine lavorativa. Ho letto, nei loro appuntamenti nel piazzale davanti casa mia, sguardi e carezze innocenti ma carichi di passione. Li ho visti amarsi, in modo goffo e impacciato, ma pur sempre eloquente. E ho visto l’altra faccia della medaglia. Un figlio nel passeggino ad accompagnare la madre in alcuni di queste piccole finestre amorose. Ho visto il vecchio amore attendere seduto sul marciapiede l’arrivo di lei. Ho visto questo e altro in un alternarsi di mattine e pomeriggi del fine settimana in cui vite e amori si sono incrociati senza mai sfiorarsi, proprio come gli sguardi dentro quell’abitacolo stamane. E il rispetto, concetto capace di impossessarsi dei miei pensieri, mi ha suggerito di evitare congetture superficiali, abbandonando generalizzazioni facili e scontate per chi assiste dal di fuori. Mi ha spiegato che, se non nasce dal di dentro, il rispetto si tramuta in concetto effimero e spesso abusato.
Novembre è il mio mese preferito. Per i colori del bosco. Per i cieli pallidi e le prime nevicate. Per le foglie morte e le gelate. Per il clima che si respira prima del gelido inverno. Per i ricordi piacevoli che sempre mi evoca, e per la malinconia di cui è ammantato. E poi ci sono i Novembre, capaci di tradurre in modo fantastico quella stessa nostalgia.
Un pensiero va ai pomeriggi scanditi da una birra al bar, e alle risate mascoline. Tempi cadaverici di una gioventù sfacciata ancora proiettata alla spensieratezza.
Un pensiero va ai racconti paterni divenuti preziosi più del materiale. Confidenze da padre a figlio, e viceversa, sussurrate tra le mura di un ospedale.
Un pensiero va agli scontri fisici e verbali sul mondo del lavoro, con gli “amici”, i “nemici” e i bulli.
Un pensiero va ai momenti in cui percepisci il cambiamento, e lo metti in atto. Il passato sarà altra cosa, e spetterà solo a te lasciartelo alle spalle. Le decisioni divengono serie; gli errori preziosi. Il passato, tanto quanto i vecchi amici, si fa ricordo, e il presente diviene concreto.
Da ragazzo mi chiedevo cosa significasse essere uomo, essere maschio. Ora cestino le domande, e vivo uno stato. Vivo un pensiero.
Oggi piove, e l’aria è carica del gelo dovuto alla neve che arriverà. Lo so grazie alla solita sensazione lungo la spina dorsale. Il mio sensore personalizzato che indica cosa accadrà.
Oltre alla pioggia ci sono degli operai, dalla parlata trevigiana, al di là della vetrata. Fanno battute concernenti i frequentatori del Piave.
«I và in xerca de capełoni» e, sentendoli ridacchiare, la voglia di chiedere loro come facciano a essere così informati sulla materia, è tanta. Parlate per esperienza? Ma lascio perdere e ascolto le battute di basso rango a cui seguono risate forzate. Sentire lo straziante sarcasmo, e quel falso divertimento, mi stimola un unico pensiero: gettarli di peso nel Piave – ogni tanto mi scatta la sana violenza, è uno dei molti pregi che tendo a nascondere.
Ora si trovano sopra la mia testa, intendo al piano di sopra, e sistemano sedie e arredo per i vari uffici. Allestiscono una nuova realtà prossima all’apertura. E se salissi per immortalarli in una fotografia da caricare sul blog e dare così un impatto visivo a queste parole? Temo però, udite mio malgrado le battute con cui hanno riempito la mattinata di riferimenti fallici, sarebbero capaci di abbassarsi i pantaloni per mostrare la mercanzia e dare il tocco finale alla goliardata. Magari assumendo le stesse pose tenute dal sottoscritto, ‘l Dur, e J. C. di Pittsburgh qualche anno fa.
Siamo sulla A27, precisamente all’aera di sosta Piave Ovest, muniti di una macchina fotografica usa e getta, e in preda ai fumi dell’alcol. Stiamo tornando a casa dall’ennesimo concerto metal (non ricordo quale purtroppo) e nelle nostre menti annebbiate risuonano gli echi delle note metalliche. Ci facciamo una birra (giusto per mantenere il livello di sbronza), e ci sfondiamo con quello che in veneto amiamo definire panìn onto. J. C. di Pittsburgh emette un rutto degno di un a solo di Mike Terrana e controlla l’indicatore dei fotogrammi rimasti a disposizione. Carica la macchinetta e insiste per farci una foto stipati dentro la cabina telefonica. Esaltati dall’alcol eruttiamo la brillante idea di imprimere sulla pellicola sederi e testicoli lì, in una triste stazione di servizio alle 3 di notte urlando contro Satana e i camosci.
E poi le risate. Scoppiano fragorose e irresistibili – non come quelle degli operai sopra la testa. Le nostre sono sane e alcoliche, divertite e spensierate. Le risate esilaranti di chi immagina la faccia che farà lo sfortunato sviluppatore del rullino.
Era una notte nei primi anni del 2000 e, come oggi, l’aria era fredda e piovigginava un po’. Il metal era una costante di molte serate e noi, come bambini discoli, esibivamo i gioielli di famiglia fregandocene del mondo imprigionato fuori dalla cabina telefonica.
P.S. oggi comunque non piove, questo racconto l’ho scritto ieri
a proposito di Mike Terrana… inconfondibile alla batteria
Eccomi a scrivere di notte svegliato dall’insonnia. Con cadenza mensile capita mi svegli verso l’una e, fino allo spuntar del sole, rimango vittima di una veglia inopportuna. Almeno stanotte riesco a dare un senso compiuto ai pensieri pigiando i polpastrelli sulla tastiera. Molti dei miei racconti nascono nelle notti insonni per poi, al mattino seguente, rimanere idee sconclusionate nella sintassi. Pezzi illogici di storie scarabocchiate su fogli rigati, oppure ricreate attraverso la mediazione del monitor. Comunque sia, è l’una, e sono sveglio.
La guancia sinistra è rigata da una lacrima. Quell’unica goccia ha lasciato un solco che se ne andrà via con dell’acqua gelida. È la traccia che i sogni, elaborati nelle poche ore di sonno, percorrono per poi svanire nel ricordo annebbiato del risveglio. È una lacrima solitaria che mi tiene compagnia, e di dormire, non se ne parla. Con il monitor acceso, e le parole che si susseguono cercando di stare al passo con i lampi del pensiero, ascolto uno di quegli album che riservo per la notte. Musica da ascoltare quando l’oscurità è alta, e il silenzio del mondo è una carezza di raso vellutato.
Il mese scorso, in una notte simile a
questa, cercavo di entrare in sintonia con un gatto dal pelo rosso. Se ne stava
seduto sul marciapiede di fronte e miagolava nella mia direzione intavolando un
discorso nella sua lingua ignota. Sorseggiando il caffè, emettevo quei versetti
idioti che chiunque produce quando si trova al cospetto di un gatto. Poi un
urlo persistente ha interrotto quel nostro intimo dialogare.
«Va via» urlava un’anziana dalla casa di riposo nascosta dagli alberi. Io e il gatto ci siamo girati verso la provenienza del lamento disperato, ascoltando rapiti la supplica della donna. Solo nel momento in cui il felino ha deciso di viversi la notte nella casa diroccata lì vicino, sono riuscito a chiudere la finestra e accendere lo stereo per coprire il lamento. Al mattino, dopo aver sonnecchiato poco più di un’ora, credevo d’aver scordato il gatto e le grida. Per me erano divenuti classici avvenimenti insignificanti che colleziono nelle notti insonni per poi lasciare si riempiano di polvere in qualche scatolone nella soffitta della mia memoria. Fu il carro funebre, che incrociai mentre andavo al mercato, a sbattermi in faccia un gelido ceffone. Percorreva il viale della casa di riposo, alla velocità che meglio si addice a mezzi progettati per quell’unico scopo, dirigendosi verso la palazzina incriminata.
«La vecchia ha visto la morte». La
mente mi martellava con questi stupidi pensieri, e un brivido bastardo
passeggiava lungo la spina dorsale punzecchiando ogni mia vertebra. E provai a
scrivere di getto quelle sensazioni per trovare conforto nei raggi solari, ma
alla luce diurna le sensazioni provate mi parvero false e sconclusionate come
molti dei miei racconti. Ho dovuto attendere l’ennesima notte di veglia per
riprodurre questa piccola vicenda sulla tastiera ma, nonostante i pensieri
abbiano acquisito consistenza, l’incompiutezza continua a tormentare i ricordi.
Ed eccomi a scrivere di notte in compagnia dell’insonnia. Sono circa le tre, e Spirit of sorrow continua a riempire la mia notte. I polpastrelli si sono sbizzarriti con la tastiera e forse domattina avrò dimenticato questo scritto pubblicato in questa notte di fine estate.
Nella vita capitano sempre fatti o situazioni particolari. Tanto insolite da rimanere impresse nella mente. E se capita riusciamo ad abbinarci una canzone, queste situazioni possono divenire grottesche.
Riascoltando, pochi giorni fa, un vecchio album degli Anthrax, mi è venuto alla mente un fatto singolare avvenuto nel periodo del servizio militare. Ne ho approfittato per divertirmi un po’, e nella pagina facebook che gestisco ho abbinato la canzone Got the time al post seguente:
2001 Alessandro ha poco più di vent’anni e non può uscire dalla caserma perché a Nuova York (o in qualche altra città yankee) sono state spedite lettere contenenti antrace e il Comando Generale ha deciso che può esserci pericolo di attacco anche in un buco di paese friulano circondato solo da campi di grano e in cui è stato eretto un unico bar gestito da una donna che dimostra 80 anni per gamba e parla solo cimutto (mi scusino gli amici friulani) ma lui se ne frega beatamente e continua a riempire di croci il calendario sperando finisca il prima possibile la naja schifosa sparandosi a palla l’unica Antrace con cui sia realmente entrato in contatto.
E voi, amiche ed amici, avete una canzone da abbinare a una situazione particolare e/o assurda?
Sono curioso di scoprire le vostre associazioni 😀 P.S. : vi risparmio le mie foto in mimetica 😀