Cosa c’è di bello a Miane?

Cosa c’è di bello a Miane? È una domanda a cui non riesco a rispondere. Attrattive turistiche ce ne sono poche, salvo la natura. Quindi, se non sei disposto/a a faticare, il bello finisci per ignorarlo, e ti ritrovi a guardare un paese anonimo come tanti.

Amici e conoscenti rimangono sempre interdetti a queste mie parole, ma è così.

In mia difesa però posso dire quanto sia bella Miane d’autunno – per la precisione nel periodo compreso tra il post-vendemmia e i primi giorni d’inverno.

Nelle giornate serene, in cui il sole si dimostra clemente, i boschi e le viti si vestono con colori caldi e ti rapiscono lo sguardo col loro manto fatto di sfumature verdi e rossicce. In quelle giornate ti sembra di camminare all’interno di un giardino creato su vasta scala.

E che dire dei suoi boschi? Li ho percorsi in lungo e in largo sia di giorno, sia di notte; col sole, e con la pioggia; durante le nevicate, e quando le nuvole scendevano a valle senza remore serrandomi all’interno di una cinta grigia e impalpabile. Sì, i suoi boschi sono stupendi, soprattutto quelli di castagni (sono ghiotto di marroni e castagne e sin da bambino mi diverto a raccoglierle).

E poi ci sono i monti. C’è stato un periodo in cui, uscito da lavoro, mi preparavo un pasto veloce e poi salivo al Monte Crep per consumarlo ammirando il tramonto farsi notte. Mi piaceva vedere la pianura veneto-friulana illuminarsi, e percorrere il tragitto di ritorno accompagnato dai raggi lunari o dl chiarore delle stelle con in sottofondo i versi degli animali notturni.

Quegli stessi monti che, se sai quando è il momento giusto per salirci, riesci a stupirti per il panorama che ti si presenta davanti. Una vista che si estende dai Colli Euganei fino alle coste dalmate, con una tappa intermedia (e doverosa) sulla laguna veneta in cui, grazie ai raggi solari, risplende la cupola di San Marco.

Lo so, ma in concreto, cosa c’è di bello a Miane? È difficile rispondere. È il mio paese natale, e i molti ricordi annebbiano il giudizio. È come un dente un poco guasto: se lo lasci tranquillo dimentichi la sua presenza, ma se vai a stuzzicarlo con la lingua è capace di farti patire le pene dell’inferno. E Miane è così, se scavo troppo a fondo nella sua bellezza finisco per trovare anche il marcio. Ma in questo momento voglio dedicarmi al bello, e tralascio le storie oscure.

Comunque, se devo rispondere alla fatidica domanda con un luogo fisico specifico, faccio il nome di un’attrattiva celata nel bosco e a cui si arriva con una bella scarpinata (ed è una fortuna così in pochi la raggiungono): il Pont de la Val d’Arch. Cos’è? Ti basta guardare la fotografia scattata qualche anno fa, vale più di mille parole.

Pont de la Val d’Arch

E di bello, a Miane, c’è l’atmosfera silenziosa tipica delle nevicate abbondanti (ahimè sempre più rare). Camminare nel bosco e sentire quel magico crepitio prodotto dagli scarponi sulla neve fresca. Guardare il mondo fermarsi per lo stupore, e sentire il rumore dei rami spezzati dal troppo carico.

E c’è molto altro ancora. Luoghi, poco frequentati, che conservo per me perché custodi di ricordi. Se un giorno dovessimo trovarci di fronte a una birra potrei raccontare aneddoti degni di essere ascoltati. Storie di personaggi assurdi, e situazioni esilaranti; momenti tragici, e figure quasi epiche.

A Miane c’è questo e altro, ma cosa ci sia di (a)effettivamente bello ancora non l’ho capito, e forse è giusto così.

Piccola curiosità: il grande poeta Andrea Zanzotto dedicò una poesia a Campea (una delle frazioni di Miane) e, se fosse vivo, senza troppi giri di parole gli chiederei: «’scolta qua Andrea, caxo atu vìst de bel a Campea? Spiegame ‘n pòc parchè mi son teston».


È la nostalgia bastarda

È la nostalgia bastarda a fotterti con ricordi e sensazioni fasulle. Prendi a esempio stamattina. Esco di casa per bere un caffè con Sara dopo mesi dall’ultimo incontro e scopro il cielo terso anche se una leggera nebbia, creata dalle acque del Piave, sembra divertirsi a nascondere il mondo circostante. Mancano pochi minuti alle nove e il termometro segna 0°C e l’aria è pungente (tipica del post nevicata in quota) e carica di quegli odori del periodo a cavallo tra autunno e inverno. E la nostalgia bastarda mi sbatte in faccia vecchi ricordi lontani di quando facevo il militare nel Friuli. Riodoro i profumi portati dal vento e ricreo mentalmente le vette sagomate della Carnia in lontananza. Era tutto diverso, ecco la frase sciocca con cui i ricordi iniziano o terminano. Era tutto diverso: vocaboli inutili per bollare un passato “idilliaco” deformato. Correva l’anno dell’attentato alle torri gemelle, e dell’assegnazione della palma d’oro a Moretti per lo stupendo “la stanza del figlio”; in estate nasceva il secondo governo Berlusconi e nel febbraio iniziavo la mia vita da milite in coincidenza con la strage famigliare di Nove Ligure. E com’era la vita presso il famigerato EI, mi domanda qualcuno? A ripensarci sorrido ma, a quel tempo, mica ridevo tanto. Era l’attesa snervante di un evento che, ridotto all’osso, pareva essere solo un miraggio. Era la bolla di un mondo chiuso in se stesso. Gli unici momenti di vero svago erano i viaggi divertenti e spassosi in camion o automobile. Transitavamo per paesini dai nomi improbabili in cui gli anziani ciarlavano in una lingua quasi incomprensibile, e percorrevamo strade deserte in cui ci divertivamo a fare peripezie con l’automobile colorata come le nostre divise. E ci fu la volta in cui, complice una consegna alla caserma di Tauriano, Angelo e io prendemmo la motivata decisione di gironzolare tra i carro armati a bordo della nostra vettura verde vomito. Nemmeno al cospetto degli Antichi lovecraftiani lo stupore orrorifico avrebbe raggiunto simili picchi d’indicibile sorpresa. I cingolati seminatori di morte ci lasciarono letteralmente a bocca spalancata tanto che, per scacciare lo stato catatonico in cui eravamo piombati, nel ritornare al nostro reggimento pensammo bene di rischiare un cappottamento per colpa di un freno a mano troppo maldestro in pieno rettilineo. E poi ancora, in una giornata simile a questa, mi capitò di accompagnare all’aeroporto di Ronchi dei Legionari il cappellano del reggimento, un omino a tal punto impaziente di spiccare il volo che, forte del proprio grado di Maggiore (chissà se guadagnato sul campo) intimò me e l’autista di sorvolare su divieti e sensi unici perché voleva bersi un caffè in tranquillità prima della partenza. Forse fu dovuta a quella commistione tra forze divine e militari se la folle corsa si risolse con un enorme successo tempistico tanto da garantirci una benedizione da parte del cappellano con relativo santino che, non appena girai i tacchi, gettai nella pattumiera. O forse fu solo la classica botta di culo. E fu sempre in una giornata di cielo terso a cavallo tra autunno e inverno a rivelarmi quanto, nei mesi targati EI, fossi stato vicino alla casa d’infanzia di quel Pasolini che, anni dopo, “incontrai” negli Scritti Corsari — lettura tanto speciale da cambiare la mia vita. Sì, la nostalgia è bastarda, e in giornate come quella odierna mi fotte coi suoi ricordi deformati ma, lo confesso, senza di essa la vita sarebbe insipida.


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il ponte vecchio di Borgo Piave – Belluno