L’ho visto stamattina, alla fermata dell’autobus, in una zona generica tra Cavarzano e Cusighe. Indossava pantaloncini mimetici, e una maglietta rossa con la marca di birra che compare nella seria dei Simpson. Sulla fronte, a mo’ di visiera, teneva un paio di occhialini dalle piccole lenti rettangolari gialle che calava sugli occhi con fare frenetico. Erano quasi le 11, e la sua giornata pareva già protrarsi verso uno scialbo infinito. Emanava stridore, se paragonato alla nonna con nipotino in attesa dello stesso autobus. Fermi, nella placida immobilità africana, anziana e bambino se ne stavano mano nella mano. Lui, continuando a giocare con gli occhialini, danzava sul posto cercando di trovare un costante equilibrio alternando i piedi. Occhi piegati verso il basso, cercava contegno nel ballo alterato. Ci siamo scambiati uno sguardo della serie “ti conosco” anche se in questa esistenza mai ci eravamo visti, e abbiamo spezzato l’incontro tra le nostre esistenze con la stessa velocità con cui si sono sfiorate. Lui barcollando, io continuando a camminare inseguito dalla mia ombra. Eppure conosco la sua storia, o potrei asserire di averla letta tra i suoi passi. Così come l’ho letta per anni in volti di amici e conoscenti, scioccamente convinto che quel tipo di droga sintetica fosse oramai finita nel dimenticatoio. Passata di moda come certi capi di vestiario, o canzonette estive nate per durare tre mesi o poco più. Démodé come quel suo stato di alterazione così distante dagli standard attuali. E se negli auricolari voci sconosciute parlavano della Bolognina e Piazza di Spagna, la mente mi bombardava con pezzi techno anacronistici rispetto a quella zona generica tra Cavarzano e Cusighe; anacronistici rispetto alla musica di tendenza odierna.
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