Samantha (o la breve narrazione di una serata trascorsa in compagnia di una giovane donna che indossò sfumature alla Buio Omega)

Facendo pulizia di vecchi file ho trovato le annotazioni conseguenti a un appuntamento al buio. Avevo dimenticato questo avvenimento e, rileggendo le poche informazioni scritte a suo tempo, mi domando perché abbia abbandonato la divertente pratica di conoscere persone a caso, privandomi così della possibilità di incontrare ragazze caratterizzate da singolari peculiarità.

Innanzi tutto tengo a precisare che Samantha, il nome della protagonista, è di pura finzione; siamo usciti un’unica volta e la messaggistica, prima e dopo l’incontro, è durata poche settimane è perdonabile, quindi, questa mia dimenticanza (amnesia ben diversa dall’oblio in HO SCORDATO IL NOME DELLA RAGAZZA CON CUI SONO USCITO PER MESI). In compenso ricordo la sua provenienza, Mogliano Veneto, e della gonna plissettata nera e corta indossata per l’appuntamento (particolare di rilevante importanza nel proseguo della vicenda).

La storia ruota attorno alla stessa città: Conegliano. Una mattina, mentre faccio colazione in un bar mai frequentato prima incontro casualmente X, ex compagno delle superiori. Parlando del più e del meno gli racconto di essermi lasciato alle spalle un periodo incasinato e di voler conoscere qualche nuova ragazza. Per magia spunta il nome di Samantha con tanto di numero telefonico. È l’amica di un’amica e pure lei sembra alla ricerca di novità sento se le va che le giri il tuo numero. Trascorrono due giorni dall’incontro con X e la trama di sms con Samantha prende forma.

Ci facciamo una birra a Conegliano, mi scrive, ma incontriamoci fuori dal centro così ci facciamo una passeggiata. Al sottoscritto va bene, e stabiliamo luogo e ora per l’incontro.

Samantha si rivela molto carina e, come già accennato in precedenza, indossa gonna e maglietta nera anonima, e un giubbetto di pelle (vi lascio indovinare il colore). I capelli, mori e lunghi, li ha raccolti in una treccia adagiata sulla spalla sinistra.

È distante il pub? A una ventina di minuti, dico. Bene io sto davanti tu guidami… questo breve dialogo avviene dopo esserci presentati. Troppo confuso per rimanere interdetto faccio come Samantha desidera e, se escludo le volte in cui si gira per controllare che il distanziamento di due metri sia rispettato (la ragazza aveva forse previsto le normative in merito Covid19 con 10 anni d’anticipo?!), le uniche parole intercorse vertono esclusivamente sulle istruzioni impartitele per raggiungere il locale.

Al pub la sinfonia sembra ripetersi. Si aggira cercando il tavolino ideale e intanto mi spedisce a ordinare due birre.

Ti ho accennato che sono disoccupata nei messaggi? Sì, le dico sedendomi di fronte. Oggi ho fatto un colloquio. E come è andato? È per un posto in un’impresa di pompe funebri. La domanda postale era differente ma evito di sottolinearlo per non inimicarmela dopo dieci secondi. L’idea di vestire e truccare i cadaveri mi eccita una casino (parole sue, giuro). Benedetto sia il gestore che arriva con tempestività a servirci le birre interrompendo un discorso che, successivamente, riesco a indirizzare verso una lista di argomenti più consoni a una conversazione qualunquista. Esci da una storia complicata; cosa hai studiato; credi agli oroscopi e menate varie.

Facciamo un brindisi a noi due? Molto volentieri, dico e noto il modo con cui afferra il boccale. Samantha lo avvolge con le mani come si fa con una tazza di cioccolata calda per infondere tepore alle mani. Senti come è fredda questa birra, dice seria, chissà se anche i cadaveri lo sono altrettanto.

Accantoniamo le teorie freudiane in materia di Eros e Thanatos e concentriamoci sulla mia fantasia. Mi figuro Samantha intenta a strusciarsi languida e sensuale su un morto (rigido pure lì) e la mia libido decide di abbandonare il mio, di corpo breve cronaca di un’erezione mancata.

A cosa stai pensando? Lo vuoi proprio sapere, le chiedo. Non serve credo di immaginarlo e forse… [sorriso compiaciuto]. Siamo due tipi dalla fervida immaginazione, le dico. Decisamente, dice e inizia a raccontare vicende minori concernenti la storia d’amore che ha appena concluso, tediandomi come mai m’era capitato.

Le birre finiscono, come i suoi racconti, e ci avviamo verso il parcheggio. Di nuovo chiede di fare strada lasciando il sottoscritto nelle retrovie distanziato di un metro, stavolta.

Mi hai guardato il culo prima? Se dicessi di no mentirei, rispondo. Bene perché voglio che mi guardi il culo mentre camminiamo, e felice come una bimba solleva la gonna mettendo in mostra le mutandine viola (gesto che compirà ripetutamente). Qualcosa riprende vita e non mi riferisco al cadavere menzionato in precedenza. Arriviamo alle automobili e la serata sembra svoltare in meglio. Ci scambiamo qualche bacio e alcune carezze, poi mi invita a salire sulla sua vettura.

Scusami se non ti faccio un pompino anche se ne avrei voglia ho già un amico di scopate e mi basta non vorrei incasinare troppo la mia vita. Va bene, le dico, non mi sembra di avertelo chiesto. E lei sorride allo stesso modo di quando eravamo in birreria: il sangue mi si gela, e qualcos’altro appassisce con codardia. Spero proprio mi assumano all’agenzia di pompe funebri ci tengo così tanto. Te lo auguro, le dico. Che carino, esclama baciandomi e ci salutiamo. Salgo nella mia macchina e la guardo scrivere un sms, poi se ne va (mi verrebbe da dire per sempre, ma…).

Se non avessi annotato i punti salienti di questa breve serata, di Samantha (chissà per quale motivo evitai di scrivermi il suo nome, ero convinto di rivederla?) avrei dimenticato tutto: dalle mutandine viola, alla gonna plissettata; dalla treccia corvina, allo sguardo nero e intenso – ma al contempo vuoto. Avrei scordato lo scambio di messaggi che perdurò qualche settimana in cui mi narrò lo stato della sua vita amorosa/sessuale, e di come l’agenzia di “becchinaggio” rifiutò la sua candidatura; delle paranoie dovute alla disoccupazione, alle foto del suo culo inviatemi perché, come amava ripetere, desiderava non lo dimenticassi. Ma, in un file intitolato “sangue freddo” ho ritrovato tutto ciò e, rileggendo l’andamento di quell’appuntamento, la sua figura è ritornata con prepotenza a invadermi la mente. Solo una cosa manca per completare questo quadro: avrà esaudito la fantasia necrofila che si portava appresso?

Conegliano, via Giovanni Battista Cima

BD

BD è stato mio collega per circa dieci anni. Iniziammo pressappoco nello stesso periodo e, come ultimi arrivati nel fantastico mondo del mobilio d’arredamento, fummo le vittime ideali di scherzi e prese per i fondelli. Forse fu questa la molla che fece nascere tra noi una simpatia reciproca, un rispetto puramente lavorativo. O forse perché, nonostante il suo carattere, io gli abbia sempre portato una stima canzonatoria.

BD era il classico individuo incarnante gli estremi. La violenza scorreva a fior di pelle, in lui, e molti lo temevano tanto quanto erano terrorizzati dai suoi scatti d’ira lucida e dirompente. Tipo quella volta che serrò il collo di un collega solo perché questi gli tirò una pallina di carta nel momento sbagliato. Ci vollero due persone per fargli mollare la presa, come due furono i colleghi a frenarlo prima che si avventasse contro il mulettista reo di non essersi accorto della sua presenza. Pochi secondi, e la tragedia avrebbe avuto luogo. BD era fatto così, viveva di scatti d’ira ma al contempo disprezzava la violenza stessa. Tipo, per esempio, se l’aggressività era rivolta contro una donna.

«Gnanca co ‘n deo te à da sfiorarle» [1] diceva, ed era pronto a correre in soccorso di qualsiasi donna se questa chiedeva il suo aiuto. Quando M gli telefonava perché aveva problemi con il proprio compagno, BD si precipitava a casa di lei e redarguiva l’uomo promettendogli una razione di legnate. E funzionava, perché chiunque temeva i suoi scatti d’ira. E con altrettanta intensità passionale, BD si preoccupava degli esseri indifesi. Se vedeva qualcuno schiacciare una vespa o una lucertola si infuriava urlando «te ala fât che?! Le masa comodo ciaparseła co i pì deboi» [2].Ed era pronto a fare a botte seduta stante solo per dimostrare che il più debole poteva essere proprio colui che aveva ammazzato l’insetto.

Quando era di buon umore invece, e i tempi morti lo permettevano, BD mi raccontava le sue “avventure” da ultras dell’allora squadra trevigiana di basket che primeggiava in Italia. Mi spiegava la metodologia dei saccheggi organizzati negli autogrill; le battaglie con gli ultras bolognesi; o mi descriveva le trasferte di comunione e fratellanza con i tifosi di Pesaro. E mi narrava delle sbronze e dei tiri di coca, dei pestaggi avvenuti a qualche festa paesana o degli scontri in qualche palazzetto sportivo. Mai, però, mi raccontò del fratello. N.

N lo conobbi anni prima. Al tempo ero studente a Conegliano e il mondo del lavoro era ancora un universo altro. Ogni venerdì, alla fermata degli autobus vicino alla rotatoria del Cavallino, N saliva in corriera dopo essere stato al Sert, e faceva lo stesso viaggio che compivo per tornare a casa (lui scendeva due chilometri prima). Qualcuno, la prima volta che fece la sua comparsa, lo battezzò Metadone, e tale rimase negli anni.

Calati sugli occhi, N aveva sempre un paio di occhiali di plastica neri, e nella mano stringeva una bottiglia di martini che finiva prima dei 22 km del viaggio. E biascicava contro noi ragazzini urlanti; contro il caldo/freddo/pioggia/sole/umidità; contro il mondo. O almeno a noi pareva così in quanto le sue parole, spesso, erano difficili da decifrare. Giunto a destinazione ci rivolgeva qualche urlo a cui rispondevamo con in modo sguaiato e mani agitate dai finestrini mentre la corriera si allontanava. Capitava anche, in rare occasioni, che N fosse in compagnia della fidanzata, e le scenate d’amore tossico che ne conseguivano erano di un tragicomico che mai più m’è capitato di rivedere. Con due gole da dissetare, la bottiglia di martini si svuotava con più velocità e l’astinenza si palesava in anticipo. Ne nascevano discussioni inenarrabili. Un venerdì capitò ci fosse solo la fidanzata, a salire a Conegliano, e prima della fermata chiese se ci fosse qualcuno disposto ad accompagnarla a casa di N perché temeva di essere menata. Scendeva solo L, in quel paese, ma per paura di essere menato a propria volta scelse “stoicamente” di prolungare il viaggio fino alla fermata successiva (la mia) e compì a piedi i due chilometri da Miane a casa. Dopo quel giorno la fidanzata di N non si fece più vedere (forse divenne ex) e Metadone, quando finii il mio ciclo scolastico, uscì pure lui dalla mia vita.

E BD? Prima che mi licenziassi (con conseguente trasferimento in un’altra provincia) venne licenziato, a da allora lo vidi in poche occasioni. È capitato lo incrociassi qualche volta mentre pedalava in bicicletta. Io gli strombazzavo con il clacson sorbendomi una serie di bestemmie prima che si accorgesse di chi fosse il disturbatore della sua quiete. E niente altro. Mia sorella però, a tutt’oggi, lo incontra saltuariamente e BD si preoccupa sempre di chiederle dove io sia, e cosa combini. «Saludamelo tant» [3] le dice, e nel modo con cui era solito darmi il buongiorno a lavoro aggiunge sempre «e ricordaghe che ‘l deve ‘ndar a fanculo» [4].

coppia a passeggio lungo una via del centro storico di Conegliano

[1] nemmeno con un dito devi sfiorarle

[2] cosa ti ha fatto?! È comodo prendersela con i più deboli

[3] salutamelo tanto

[4] penso sia di facile comprensione


I miei racconti li trovate QUI

Ho scordato il nome della ragazza con cui sono uscito per mesi

Ho scordato il nome della ragazza con cui sono uscito per mesi. Nella memoria sono impressi i suoi occhi verdi, i lunghi capelli biondi, le fattezze del viso e le curve invitanti del corpo. Era di Santa Lucia di Piave, e aveva pressappoco la mia età. Appassionata di storia dell’antico Egitto, parlava in continuazione di faraoni e scavi archeologici, argomenti che, al sottoscritto, interessavano poco o nulla.

Eravamo soliti fare colazione assieme, soprattutto la domenica. Entrambi mattinieri, ci davamo appuntamento a Conegliano nel momento in cui molti individui concludevano la nottata di bagordi. Lei prendeva caffè al ginseng e una brioches che centellinava in piccoli bocconi, io caffè nero e cornetti che divoravo come non ci fosse un domani. Altre volte ci vedevamo di sera (mai per cenare assieme) e in una di queste uscite, oltre a presentarmi la sorella, mi portò all’evento organizzato da un “medico” di cui seguiva le gesta – se uso le virgolette un motivo c’è. La serata in questione si tenne a Oderzo, forse alla biblioteca civica, e verté sulla crescita interiore.

La prima cosa che mi balzò agli occhi, oltre al gran numero di presenti, erano i seguaci del sedicente medico. Indossavano tute nere e calzavano scarpe del medesimo colore. Con le braccia incrociate sul petto, presidiavano ogni uscita. Rappresentavano l’ultimo livello di una scala evolutiva studiata da quello stesso medico che, nel giro di pochi minuti, fece il proprio ingresso in sala. Parlò per oltre un’ora senza pause e a fine serata dimostrò nella pratica l’arte di cui era dotato. Scelse tra il pubblico la ragazza che, visibilmente, era più in difficoltà, e l’ipnotizzò – qui arriva la parte schifosa. Mentre la giovane era in trance, il medico la invitò a confessare alla platea di quale malattia soffrisse. Lei rispose. Al termine dello stato catatonico il tipo chiese al pubblico di ripetere il segreto che la ragazza aveva svelato. Seguì il pianto di umiliazione di lei ma il medico, abile nel manipolare le menti deboli riuscì, nell’ordine, a calmarla (prima) e iscriverla (poi) a uno dei propri corsi promettendole una sicura guarigione. Il tutto si concluse con un fragoroso applauso, e la mia indignazione assoluta. Il rapporto con la ragazza di cui ho scordato il nome, da quel momento, iniziò a incrinarsi. Ma era un rapporto, il nostro?

L’ho frequentata per mesi, e nello stesso periodo lei usciva pure con un poliziotto (una guardia carceraria a Santa Bona) perché indecisa tra chi scegliere dei due. E in quelle stagioni tra colazioni e drink post cena, mai un bacio riuscii a strapparle, figuriamoci altro. Non permetteva alcun contatto, e il sesso era esclusivamente un resoconto delle gesta compiute dalle sue colleghe. Parlandone con L, un’amica psicologa, mi spiegò che questi atteggiamenti (e altri che tengo celati) sono tipici di chi soffre di disturbi legati all’alimentazione. Fu in seguito alle parole di L che notai l’insolita magrezza di quel corpo (salvo per il seno abbondante) a cui non avevo accesso. Continuai a fare colazione assieme a lei, e a uscirci il sabato sera finché, sul finire dell’estate, mi resi conto di essere una pedina (assieme alla guardia carceraria) di un gioco destinato a non avere fine. Il rapporto (se è possibile definirlo tale) si concluse che uno scambio di sms che ancora ricordo – a differenza del nome, e con la mia risata liberatoria.

Ed è curioso il fatto che, nonostante sia un maschio molto attratto dalle forme femminili, con lei abbia inaugurato un periodo della vita caratterizzato da frequentazioni (di varia natura) con ragazze affette da disturbi alimentari.

P.S. confesso di aver stilato una lista di nomi femminili per associare il volto impresso nella memoria, ma l’azione è risultata vana…