Ho sognato ferite aperte, affamate e slabbrate. E nel sogno, bimbi armati di stiletto infliggevano sulle coscie di anziani addormentati tagli netti e profondi.
Dall’alto di una torre osservavo gli accadimenti con l’occhio clinico di chi non è coinvolto emotivamente, per poi precipitare giù, dentro quelle stesse labbra cremisi e sconciamente seducenti.
E in quella violenza onirica osservavo la paglia lordata di sangue, e stanze vuote prive di ogni abbellimento finché i miei occhi si spalancarono all’improvviso. Attorno a me l’oscurità della notte e il placido battito del cuore.
Devo ricercare il significato di tale sogno, mi sussurravo.
Devo leggere il labbiale delle ferite sconciamente seducenti.
Da “Analisi linguistica di uno slogan”; 17 maggio 1973. Pier Paolo Pasolini
C’è un solo caso di espressività – ma di espressività aberrante – nel linguaggio puramente comunicativo dell’industria: è il caso dello slogan. Lo slogan infatti deve essere espressivo, per impressionare e convincere. Ma la sua espressività è mostruosa perché diviene immediatamente stereotipata, e si fissa in una rigidità che è proprio il contrario dell’espressività, che è eternamente cangiante, si offre a un’interpretazione infinita.
Pareva uno zombi. L’altro ieri, mentre ero fermo allo stop, sono rimasto allibito nel vedere un tizio attraversare la strada incurante di tutto. Testa china sul cellulare, seguiva le ombre di altri pedoni senza prendersi la briga di controllare se la luce del semaforo fosse verde. Camminava, in una specie di trans idiota, impossibilitato dallo staccare gli occhi dal piccolo schermo. Strada, marciapiede, un cratere. Poco importa cosa ci fosse davanti ai sui piedi. Camminava per inerzia in una cecità a occhi aperti. E non è il primo. È un virus dilagante pronto a infettare chiunque – e non solo i ragazzini.
Basta così poco per rincoglionirci e privarci dell’uso della ragione e del buon senso? È di così vitale importanza ciò che il telefono mostra? Siamo sempre disponibili, ma per cosa? Per chi?
Questa nuova dipendenza dove ci porterà? Le cliniche del futuro disintossicheranno dall’uso spasmodico dei social e giochi on-line? Dal sesso digitale – mi mette i brividi pensare a un rapporto senza odori e umori!
Mi mettono i brividi questi sguardi sempre chini incapaci di cogliere il reale.
Sono scesi i lupi in paese, ormai è un dato di fatto. Si spingono oltre l’inimmaginabile e risvegliano paure ataviche.
Ieri, mentre facevo una corsa su per i colli, ho incontrato ‘l Guru (ne ho scritto anche QUI) e, vedendolo in tenuta da caccia, ne ho approfittato, oltre a rimembrare i vecchi tempi, per parlare proprio dei lupi.
Quello che hai letto è solo una parte, mi fa. Tanti fatti non sono stati denunciati alle autorità. Ti ricordi di via 4 novembre?
Certo che me la ricordo. Da ragazzini passavamo le serate d’estate a giocarci a pallone perché non vi passavano auotomobili. Era il nostro rifugio anti-stronzi, era il nostro territorio. Ricordo le nottate passate seduti sul marciapiede a mangiare gelati, e le occhiate cariche di curiosità e innocente malizia vedendo i genitori di M. che organizzavano scambi di coppia con la Francese e il di lei compagno.
Via 4 novembre è stato un angolo di paese che, per vari aspetti, ci ha fatto crescere in fretta, presentandoci dolori e situazioni solo nostre, nemmeno condivise coi rispettivi genitori.
E ‘l Guru inizia a raccontarmi di come i lupi si siano avventati su una cerva, proprio lì, in via 4 novembre, imbrattando di sangue la strada e la statua della Madonna.
Sembra che i boschi di Miane siano i preferiti dagli ungolanti, e di conseguenza i lupi si sono adattati a questa scelta, trasformando il paese nel loro territorio. E sta cosa mi rode. Mi rode perché per anni ho segnato di vederne qualcuno, e adesso che non vivo più lì, questi affascinanti animali decidono di insediarsi nel mio paese natale. Di invadere i territori che un tempo erano di noi ragazzini.
Eravamo un branco di ragazzini un po’ selvatici, allora. Sempre per i fatti nostri, sempre a zonzo al limitare del bosco.
Via 4 novembre era nostra, e mi rende felice sapere che ora è di un qualcuno più selvatico di noi.
Ho sempre avuto un brutto rapporto con il compleanno. In passato l’ho caricato di aspettative (sempre deluse), recriminando sulle feste fatte, e non, che, con tutta onesta, potrei definire tristi.
Oggi ho deciso di abbandonare il passato, e vivermi questo giorno così com’è. Senza aspettative, senza nulla di organizzato. Una scoperta istante dopo istante. Forse sta in questo modo di viversi la vita che tutto diviene più semplice e naturael.
P.S. ieri, sfogliando una rivista di cinema, ho scoperto di festeggiare gli anni nello stesso giorno di Werner Herzog… mica male!
Stamattina il cielo era terso salvo qualche velatura sulla Dalmazia, e una linea poco marcata di smog sulla laguna veneta. Il bosco era silente, e a inizio mattina non c’era anima viva lungo i sentieri – amo girar per boschi senza la presenza umana.
La solitudine è mia compagna di viaggio da sempre. Sin da bambino ho coltivato questa relazione, e anche se in certi momenti ho percepito il suo peso gravare sulle spalle, negli anni ho apprezzato questa singolare presenza perché mi ha letteralmente accompagnato nella scoperta di me stesso.
E i ricordi più intensi li associo proprio nei momenti di solitudine. Mentre sono intento a camminare nei boschi o per monti, o contemplando il mare d’inverno. Momenti in cui il mondo esterno e i pensieri si fanno silenti, e il mio ego si annulla grazie a ciò che lo sguardo abbraccia.
La solitudine è continua scoperta, e credo che la seguente definizione di Hillman racchiuda al meglio la forza generatrice di questa particolare compagna.
La solitudine viene e va indipendentemente dalle misure che possiamo prendere. Non dipende dall’essere soli, letteralmente, perché si possono provare fitte di solitudine mentre siamo in mezzo ai nostri amici, a letto con l’amante, al microfono davanti a una folla osannante. Quando i sentimenti di solitudine sono visti come archetipi, ecco che diventano necessari; che non sono più annunciatori di colpe, di terrori, di uno stato morboso. Possiamo accettare la misteriosa autonomia di questo sentimento, liberando la solitudine dall’identificazione con l’isolamento letterale. Oltretutto, una volta situata sul suo sfondo archetipo, la solitudine non è sempre e principalmente spiacevole. Se guardiamo (o meglio sentiamo) da vicino il senso di solitudine, scopriamo che è composto di diversi elementi: nostalgia, tristezza, silenzio e un anelito dell’immaginazione verso «qualcos’altro» che non è qui e ora. Perché queste componenti e immagini si mostrino, dobbiamo innanzitutto mettere a fuoco l’attenzione su di esse., anziché su come rimediare al fatto di essere soli in senso letterale. La disperazione diventa più brutta quando cerchiamo delle vie per uscirne.
È la pioggia ad accompagnare il risveglio. Silenti fragori si infrangono sull’esistenza ancora assopita e odo, in lontananza, una sirena. Lampi bluastri solcano ciò che rimane della notte.
Effettuo qualche profondo respiro, e attendo l’alba. I primi raggi solari si affacciano alle spalle dei monti alpagoti, e nuove onde sonore riempiono l’aria.
Seduto in silenzio passo in rassegna pensieri, ricordi e volti. Li guardo con occhi vigili e distanti. Osservo l’esistenza passata facendone tesoro accantonando giudizi e osservazioni. Nella continua rivoluzione del mio essere scopro nuove sfumature e antiche tonalità.
In questa continua rivoluzione del mio essere mi respiro, taciturno.
Che sia per il profumo umido della pioggia, o per il lieve baluginio dei primi raggi solari ad accarezzare i monti, il mattino riserva sempre un lungo istante speciale.
Nel mio tragitto incontro lepri, caprioli, a volte cervi e, quando sono fortunato volpi e tassi. E le gazze? Sono ovunque con la loro irriverenza, per non parlare degli stormi di gracchi spudoratamente ciarlieri.
Tutto ciò è bellezza, ma non tanto affascinante come passeggiare o correre sotto la pioggia.
È una sensazione benefica. Ti sciacqua i pensieri rigenerando il corpo.
In ogni stagione faccio almeno un’uscita sotto la pioggia senza riparo alcuno e, se stai leggendo queste righe, ti invito a farlo. Giusto per amarti un po’.
(continua sotto l’immagine)
ADOTTA UN POETA
Proprio così, adotta un poeta o, per meglio dire, uno ei suoi componimenti. Un libro non sporca, non devi farlo uscire per fare i bisogni, e non o devi nemmeno sfamare! Anzi, ricambia la fiducia donandoti emozioni.
E allora, cosa aspetti? Adottami!
I miei componimenti li trovi a questo link: Amazon.it : alessandro chiesurin oppure puoi chiedermi di niviarti una copia direttamente a casa
L’articolo di oggi è particolare. È un componimento a 4 mani, o doppio sguardo se preferisci. È il frutto di un’interazione tra il sottoscritto e il blog Le Dritte di Simo. Di cosa parla? A te scoprirlo anche se, già dal titolo, qualcosa lo potresti intuire. Non aggiungo altro se non Buona Lettura e un piccolo suggerimento: vai a scoprire il mondo di Simo, non te ne pentirai!
lo sguardo di le dritte di simo
Quando si intravede una forma di possesso nei confronti di un’altra persona viene quasi spontaneo giustificare questo atteggiamento come gelosia del partner, e se si è gelosi automaticamente la motivazione risiede nell’essere innamorati. Questa logica risulta essere conveniente per chi assume un comportamento del genere, ma se solo si analizzasse in modo approfondito la possessività che nasce in rapporti nuovi o consolidati allora non ci si nasconderebbe dietro ad un ‘sono geloso/a’.
Amare il più delle volte viene confuso o associato con il possedere l’individuo. Sia nei rapporti familiari che di coppia il possesso viene considerato una prerogativa. Io amo te quindi tu appartieni a me, allontanando qualsiasi forma di soggettività. In una relazione ogni protagonista deve sentirsi tale e di conseguenza deve esserci una distanza funzionale tra essi. Stare insieme non deve portare uno dei due o entrambi ad essere considerati oggetti. Si esatto, possedere qualcuno priva quella persona della propria libertà di azione e di pensiero. Un legame sentimentale non è una catena immaginaria, non è un cappio al collo, ma è condividere di comune accordo la propria vita senza mai arrivare a perdere il controllo sul proprio essere. L’amore è incompatibile con il possesso. Non si ama chi si considera proprietà privata. Una relazione non implica un obbligo, bensì si basa su una libertà di scelta. Quindi, se ci si sente forzati per riconoscenza, per generosità, per convenienza, vuol dire che il possesso ha preso il sopravvento. Possedere una persona è sinonimo di insicurezza personale, è equivalente a rubare la libertà altrui facendola passare come forma di affetto. Le favole finiscono con ‘vissero per sempre felici e contenti’ frase che racchiude in bella vetrina il possesso respingendo qualsiasi attenzione alla persona, qualsiasi affettuosità e qualsiasi forma di legame amoroso. Il possesso è il mostro con mille occhi e mille mani che avvinghia la preda e la soffoca. Non serve vivere forme di possesso estremo, basta anche solo far sentire in colpa la persona per la libertà che prova a mostrare, ricattandola e accusandola di non saper amare. Provate ad immaginare un oggetto in una bella teca trasparente in cui tutti possono ammirarlo ma nessuno può toccare, l’oggetto esiste nel mondo ma non può interagire con il mondo. Provate a pensare agli animali di un circo in cui mostrano il loro lato addomesticato ma non la loro vera natura. Siete sicuri che non state vivendo in una teca o in un circo?
lo sguardo di spore poetiche
Nella realtà in cui viviamo, uno dei sinonimi di amore è possesso. A riprova di ciò la cronaca giornaliera fornisce esempi di uomini che, incapaci di accettare la “perdita” della donna “amata”, sfogano il dolore del possesso perduto attraverso crimini violenti e delittuosi.
L’esclusività del compagno/a parrebbe essere prerogativa intrinseca di una relazione. Se non fai, ti comporti, agisci per dimostrare il tuo amore nei miei confronti, allora il tuo sentimento è falso. Chi non ha mai usato simili espressioni o se l’è sentite rivolgere come atto d’accusa dal partner? L’insicurezza si fa imperante, e la’ltro diviene la cause delle proprie mancanze.
Una relazione sana, al contrario, si fonda su libertà e rispetto. Bisogni e necessità del partner dovrebbero essere l’occasione per conoscersi e progredire assieme. Un veicolo per raggiungere la complicità e vivere la scoperta dell’intimità come un gioco.
Relazionarsi significa affidarsi all’altro/a senza snaturare il proprio essere; senza riversare sul partner il bisogno che questi si faccia carico del vuoto creato dall’insicurezza; senza creare un legame basato sull’inganno.
Relazionarsi è guardare la propria immagine riflessa negli occhi dell’altro/a.
Verne – Materia (2006) Carmelo & Giuseppe Orlando, Massimiliano Pagliuso
Ho visto 4 concerti dei Novembre: Treviso, Milano, Padova, Dinkelsbühl. Ricordo ancora il primo, al New Age. Era il tour di presentazione di Novembrine Waltz, e i Novembre dividevano il palco con altri gruppi metal italici. E il sottoscritto era lì, in quello strano incrocio del New Age in cui ingresso dei camerini, bagni e bancone del bar convergevano in un unico punto. Ero lì. In attesa di una birra e dell’esibizione della prossima band. Sentii una gran pacca sulla spalla e girandomi, pronto per “mandare in mona” quello che credevo fosse un amico in vena di scherzi, mi ritrovai davanti Carmelo che mi disse Grande! Gran bella maglietta.
È difficile spiegare, a chi non segue la musica heavy metal, lo strano rapporto che c’è tra le band e i fan. È difficile spiegare la gioia di un ragazzo (poco più che ventenne) che si ritrova davanti al muso la faccia sorridente di uno dei suoi idoli. Ed è difficile spiegare quanto siano importanti, per i metallari, le magliette. Sono un tratto distintivo, un veicolo per trasmettere, oltre all’amore per un genere, anche le sensazioni/emozioni che un gruppo rappresenta.
Conservo ancora quella maglietta. Dopo 20 e più è ancora intatta, salvo per il colletto strappatosi dopo un concerto dei Grave Digger. L’ho conservata perché ho molti ricordi legati a essa e ai Novembre. Ricordi che si tramutano in sorrisi, e non solo. E per uno abituato a non conservare oggetti tangibili del passato, è davvero un fatto singolare. Singolare come la musica dei Novembre.
Diffido delle stertte di mano fredde e dei sorrisi di circostanza; dei complimenti gratuiti e delle decisioni prese sull’onda dei sentimenti; dei superlativi e dei dispregiativi; dei santi e santoni e dei peccatori col megafono; delle recensioni inconcludenti e delle persone inconcludenti; delle bugie gentili e delle verità taciute; delle promesse politiche e dei facili complottismi. Diffido della mia mente, e della diffidenza in generale.
La guerra è fredda La guerra è limitata La guerra è endemica La guerra è ciclica
La pace è calda La pace è contrattata La pace è labile La pace è ciclica
E noi che siamo esseri liberi Un ciclo siamo macellati E un ciclo siamo macellai Un ciclo riempiamo gli arsenali E un ciclo riempiamo i granai
Un ciclo gli arsenali Un ciclo i granai Un ciclo macellati Un ciclo macellai
La pace è guerra Con spreco di licenze La guerra è pace Con spreco di ordinanze
E noi siamo felici esseri liberi Carne Solo per caso, raramente Qualche cosa d’altro Un ciclo siamo macellati E un ciclo siamo macellai Un ciclo riempiamo gli arsenali Un ciclo riempiamo i granai
Un ciclo macellati E un ciclo macellai
La guerra è fredda La guerra è limitata La guerra è endemica La guerra è ciclica
La guerra è un limite per le nostre escursioni La pace è un limite per le nostre emozioni
La guerra è un limite per le nostre escursioni La pace è un limite per le nostre emozioni
Oggi è l’anniversario di due morti. Due musicisti capaci di segnare la mia, e non solo, crescita. Due esponenti di un genere, il grunge, che, come pochi altri, ha saputo tramutare in note la rabbia esistenziale.
Il 05 aprile 1994 Kurt Cobain si toglie la vita con un fucile. Il 5 aprile 2002 Layne Staley si toglie la vita con l’ennesima pera.
Kurt e i Nirvana sono stati il primo grande amore musicale. Staley e gli Alice in Chains sono venuti dopo. E mentre i Nirvana sono divenuti nel tempo una colonna sonora saltuaria, gli Alice in Chains sono una continua scoperta. La voce di Staley sofferente e ipnotica continua a rapirmi e trascinarmi in luoghi riflessivi e vivi.
Oggi è il ricordo del genere musicale della mia generazione. Un tuffo nel passato rimasto presente.