amore o possesso?

L’articolo di oggi è particolare. È un componimento a 4 mani, o doppio sguardo se preferisci. È il frutto di un’interazione tra il sottoscritto e il blog Le Dritte di Simo. Di cosa parla? A te scoprirlo anche se, già dal titolo, qualcosa lo potresti intuire. Non aggiungo altro se non Buona Lettura e un piccolo suggerimento: vai a scoprire il mondo di Simo, non te ne pentirai!

lo sguardo di le dritte di simo

Quando si intravede una forma di possesso nei confronti di un’altra persona viene quasi spontaneo giustificare questo atteggiamento come gelosia del partner, e se si è gelosi automaticamente la motivazione risiede nell’essere innamorati. Questa logica risulta essere conveniente per chi assume un comportamento del genere, ma se solo si analizzasse in modo approfondito la possessività che nasce in rapporti nuovi o consolidati allora non ci si nasconderebbe dietro ad un ‘sono geloso/a’.

Amare il più delle volte viene confuso o associato con il possedere l’individuo. Sia nei rapporti familiari che di coppia il possesso viene considerato una prerogativa. Io amo te quindi tu appartieni a me, allontanando qualsiasi forma di soggettività. In una relazione ogni protagonista deve sentirsi tale e di conseguenza deve esserci una distanza funzionale tra essi. Stare insieme non deve portare uno dei due o entrambi ad essere considerati oggetti. Si esatto, possedere qualcuno priva quella persona della propria libertà di azione e di pensiero. Un legame sentimentale non è una catena immaginaria, non è un cappio al collo, ma è condividere di comune accordo la propria vita senza mai arrivare a perdere il controllo sul proprio essere. L’amore è incompatibile con il possesso. Non si ama chi si considera proprietà privata. Una relazione non implica un obbligo, bensì si basa su una libertà di scelta. Quindi, se ci si sente forzati per riconoscenza, per generosità, per convenienza, vuol dire che il possesso ha preso il sopravvento. Possedere una persona è sinonimo di insicurezza personale, è equivalente a rubare la libertà altrui facendola passare come forma di affetto. Le favole finiscono con ‘vissero per sempre felici e contenti’ frase che racchiude in bella vetrina il possesso respingendo qualsiasi attenzione alla persona, qualsiasi affettuosità e qualsiasi forma di legame amoroso. Il possesso è il mostro con mille occhi e mille mani che avvinghia la preda e la soffoca. Non serve vivere forme di possesso estremo, basta anche solo far sentire in colpa la persona per la libertà che prova a mostrare, ricattandola e accusandola di non saper amare. Provate ad immaginare un oggetto in una bella teca trasparente in cui tutti possono ammirarlo ma nessuno può toccare, l’oggetto esiste nel mondo ma non può interagire con il mondo. Provate a pensare agli animali di un circo in cui mostrano il loro lato addomesticato ma non la loro vera natura. Siete sicuri che non state vivendo in una teca o in un circo?

lo sguardo di spore poetiche

Nella realtà in cui viviamo, uno dei sinonimi di amore è possesso. A riprova di ciò la cronaca giornaliera fornisce esempi di uomini che, incapaci di accettare la “perdita” della donna “amata”, sfogano il dolore del possesso perduto attraverso crimini violenti e delittuosi.

L’esclusività del compagno/a parrebbe essere prerogativa intrinseca di una relazione. Se non fai, ti comporti, agisci per dimostrare il tuo amore nei miei confronti, allora il tuo sentimento è falso. Chi non ha mai usato simili espressioni o se l’è sentite rivolgere come atto d’accusa dal partner? L’insicurezza si fa imperante, e la’ltro diviene la cause delle proprie mancanze.

Una relazione sana, al contrario, si fonda su libertà e rispetto. Bisogni e necessità del partner dovrebbero essere l’occasione per conoscersi e progredire assieme. Un veicolo per raggiungere la complicità e vivere la scoperta dell’intimità come un gioco.

Relazionarsi significa affidarsi all’altro/a senza snaturare il proprio essere; senza riversare sul partner il bisogno che questi si faccia carico del vuoto creato dall’insicurezza; senza creare un legame basato sull’inganno.

Relazionarsi è guardare la propria immagine riflessa negli occhi dell’altro/a.

oscenità del giudizio

L’articolo di oggi è particolare. È un componimento a 4 mani, o doppio sguardo se preferisci. È il frutto di un’interazione tra il sottoscritto e il blog Le Dritte di Simo. Di cosa parla? A te scoprirlo anche se, già dal titolo, qualcosa lo potresti intuire. Non aggiungo altro se non Buona Lettura e un piccolo suggerimento: vai a scoprire il mondo di Simo, non te ne pentirai!

lo sguardo di le dritte di simo

Con il termine Giudizio, nel linguaggio comune, si intende un’affermazione verbale o scritta che non ha il fine della sola constatazione di fatto ma che esprime una valutazione sulle qualità o il merito di una persona o di una cosa. La scuola insegna che i giudizi finali si basano su un rendimento dell’alunno, non certo sul carattere dell’alunno o su come lui stesso vive la vita o come vorrebbe viverla. Dare un giudizio sullo stile di una persona, sul suo vivere la vita, sui comportamenti che assume o sugli atteggiamenti che mostra, ha una derivazione religiosa. Si giudica spesse volte le scelte altrui che non seguono una direzione ‘devota’ e rispettosa della parola di Dio. Tutto ciò che contrasta viene addirittura definito peccaminoso. Quindi chi ammette l’adulterio, il divorzio, l’aborto, oppure chi fa scelte che si distanziano da quelle comune, viene accusato e diventa un bersaglio, facile, da disprezzare e condannare. Ognuno si erge a protettore di una legge sacra. Ma chi sono questi giudici? Perché il loro giudizio viene inteso come verità assoluta? L’importanza che si dona al giudizio supera qualsiasi coscienza e incatena il libero arbitrio. Gli uomini sono portati al giudizio continuo e sono anche timorosi di ricevere giudizio. La severità con cui si giudica travalica ogni limite. L’ansia da giudizio porta l’essere umano a vivere con la sensazione che l’altro lo criticherà e giudicherà qualsiasi cosa faccia, quindi evita di essere sotto il mirino di osservazione sopprimendo purtroppo la sua spontaneità e la sua libertà.

Il giudizio è una lama sottile che taglia la comuni

Con il termine Giudizio, nel linguaggio comune, si intende un’affermazione verbale o scritta che non ha il fine della sola constatazione di fatto ma che esprime una valutazione sulle qualità o il merito di una persona o di una cosa. La scuola insegna che i giudizi finali si basano su un rendimento dell’alunno, non certo sul carattere dell’alunno o su come lui stesso vive la vita o come vorrebbe viverla. Dare un giudizio sullo stile di una persona, sul suo vivere la vita, sui comportamenti che assume o sugli atteggiamenti che mostra, ha una derivazione religiosa. Si giudica spesse volte le scelte altrui che non seguono una direzione ‘devota’ e rispettosa della parola di Dio. Tutto ciò che contrasta viene addirittura definito peccaminoso. Quindi chi ammette l’adulterio, il divorzio, l’aborto, oppure chi fa scelte che si distanziano da quelle comune, viene accusato e diventa un bersaglio, facile, da disprezzare e condannare. Ognuno si erge a protettore di una legge sacra. Ma chi sono questi giudici? Perché il loro giudizio viene inteso come verità assoluta? L’importanza che si dona al giudizio supera qualsiasi coscienza e incatena il libero arbitrio. Gli uomini sono portati al giudizio continuo e sono anche timorosi di ricevere giudizio. La severità con cui si giudica travalica ogni limite. L’ansia da giudizio porta l’essere umano a vivere con la sensazione che l’altro lo criticherà e giudicherà qualsiasi cosa faccia, quindi evita di essere sotto il mirino di osservazione sopprimendo purtroppo la sua spontaneità e la sua libertà.

Il giudizio è una lama sottile che taglia la comunicazione quotidiana di una persona piano piano e che lacera fino in profondità. Fa sanguinare e paradossalmente quel dolore che si sente lo si trasforma non in forza per migliorarsi ma in remissione e compiacimento verso chi giudica. Il senso di inadeguatezza deriva dalla persona stessa che non si sente all’altezza di una situazione o di un dire. Parte da una sfiducia in se stessi dando l’arma direttamente agli altri. Pone figuratamente e non solo la persona su un gradino inferiore, innalzando ad un livello spudoratamente superiore il cosiddetto giudice. Pensare a quanto si dà importanza a questo o a quel giudizio sulla propria persona potrebbe far reagire, oppure sottomettere. Si è così concentrati a vedere le sottomissioni in altri ambiti e biasimarle, che non ci si accorge di porre noi stessi in una condizione di schiavitù nei confronti degli altri. Riflettere e agire sono le uniche azioni da compiere.

cazione quotidiana di una persona piano piano e che lacera fino in profondità. Fa sanguinare e paradossalmente quel dolore che si sente lo si trasforma non in forza per migliorarsi ma in remissione e compiacimento verso chi giudica. Il senso di inadeguatezza deriva dalla persona stessa che non si sente all’altezza di una situazione o di un dire. Parte da una sfiducia in se stessi dando l’arma direttamente agli altri. Pone figuratamente e non solo la persona su un gradino inferiore, innalzando ad un livello spudoratamente superiore il cosiddetto giudice. Pensare a quanto si dà importanza a questo o a quel giudizio sulla propria persona potrebbe far reagire, oppure sottomettere. Si è così concentrati a vedere le sottomissioni in altri ambiti e biasimarle, che non ci si accorge di porre noi stessi in una condizione di schiavitù nei confronti degli altri. Riflettere e agire sono le uniche azioni da compiere.

lo sguardo di spore poetiche

Denudarsi: un’azione semplice ma, al contempo, carica di emozioni. Un gesto che, nel momento in cui lo si compie, si ammanta di pensieri contrastanti capaci di soffocare la libertà di cui il gesto è portatore.

La nostra società si basa sul giudizio. A prima acchito ciò è positivo. È lo stimolo che ci permette di progredire, di evolvere. Purtroppo però, il giudizio, è usato non per misurare i miglioramenti personali atti all’auto miglioramento, ma bensì per stilare classifiche in cui l’altro è un competitore. Il giudizio diviene, per cui, il metro di misura di una società competitiva. E quando la vita quotidiana si trasforma in una continua gara per surclassare l’altro, il giudizio ha vita facile nell’insinuarsi nella nostra realtà, trasformando intaccando ogni nostra sfera esistenziale.

Credo sia capitato a chiunque, almeno una volta nella vita, di essersi sentito/a a disagio nell’istante in cui si apprestava a entrare in intimità con una persona capace di destabilizzargli/le i sensi. Chissà se sarò all’altezza delle sue aspettative, speriamo non noti quel brutto neo che ho sulla schiena, le mie forme/misure lo/la deluderanno?

Nell’istante in cui decidiamo di metterci in gioco, svelandoci all’altra persona, il giudizio figlio di una società competitiva si presenta sull’uscio limitando la nostra libertà, soprattutto durante il sesso. Perché? Semplicemente perché il sesso è la forma più prorompente di libertà.

I nostri istinti e desideri si manifestano con più ardore proprio nel momento del coito, e nella vertigine dell’amplesso, diveniamo esseri incontrollabili. Può una società in cui controllo e giudizio sono sinonimi, permettere che il caos generatore di libertà, si manifesti nella sua naturale semplicità? Credo di no, e proprio attraverso la condanna di certi atti e pratiche attraverso giudizi netti e taglienti, instilla in noi la paura. Una paura figlia del giudizio perché ci sarà sempre qualcuno/a pronta a criticare il fatto di non essere all’altezza del compito assegnato; di non conformarsi alle regole; di essere troppo alto o troppo basso; di essere gentile nei momenti sbagliati, e cattivo nei momenti meno opportuni; di sentirsi libero/a di godere della propria sessualità; e di qualsiasi altra cosa.

Il giudizio è un’arma a doppio taglio perché, da un lato ci impedisce di vivere a pieno la vita seguendo il proprio istinto; e dall’altro la possiamo rivolgere verso gli altri come è stata puntata verso di noi. E se nel momento in cui mi denudo, con l’intento di spogliarmi di ogni inibizione, mi sento giudicato/a da colui a cui mi do, il rapporto che andrà a crearsi in quel momento non sarà un’unione di intenti, ma bensì uno scontro per ottenere una medaglia.

La prima faccia della medaglia sarà caratterizzata dal bisogno spasmodico di essere riconosciuto/a – e per ottenerla sarò costretto/a a snaturare il mio essere. La seconda faccia rappresenterà la pura ricerca del piacere personale – un atto egoistico in cui l’altra persona si tramuta in mezzo per raggiungere l’obiettivo.

Credo che il giudizio ci privi di quella naturale libertà di cui il sesso è portavoce. Con un continuo bisogno di catalogare ogni nostro gesto e pensiero, il giudizio costruisce attorno a noi gabbie da cui poi facciamo fatica a evadere. E nel mentre ci denudiamo, convinti/e di svelarci all’altro, inconsciamente indossiamo strati su strati di paure e castrazioni.

Seta

Scritta in un pomeriggio nevoso, Seta racconta dei silenzi indagatori; delle vertigini nate nei propri pensieri; della bellezza nello sfiorarsi.

Scrissi questi versi ripensando a uno sguardo femminile lontano nel tempo. Uno sguardo perduto, mai scordato.

SETA

È nella lucidità specchiatasi nell’iride

se riesco a compitare frasi e ragionamenti

di forma compiuta.

per giungere a ciò

faticai arrovellandomi tra stupidi demoni insaziabili,

e pensieri preconfezionati saccheggiati

alle ignave passanti.

Ho tessuto una trama talmente fitta

negandomi ogni min imo spiraglio di sole,

guadagando, al contempo, chiarezza in punto croce.

Se nelle giornate morte sembro spento,

non straziarmi l’anima.

Rammenta di quando confezionammo

questo nuovo stato

intessuto di piacevoli ricordi. Quel giorno

la neve si fece fitta, e il tuo sorriso candido;

il fuoco lambiva le vesti,

e le mie carezze per te erano seta.

Alessandro Chiesurin – Viscerotica

Seta è presente in VISCEROTICA, disponibile in tutte le piattaforme di vendita libri. Oppure puoi chiedere una copia con dedica compilando il modulo CONTATTI.

Photo by Alexander Krivitskiy on Pexels.com

telegram

Voi usate telegram? Lo chiedo perché mi capitano strane “connessioni” e desidero sapere se posso considerarmi un privilegiato o se faccio parte dei comuni mortali.

Fondalmentalmente sono due le “connessioni” che infestano il mio contatto come in un bel racconto horror:

  • signorine disinibite
  • donne allo stadio terminale

Le prime, che stranamente parlane di sé sempre al maschile, sono immancabilmente desiderose di informarmi a proposito del loro “piano sessuale”. Dopo gli approci iniziali in cui le invitavo a scassare il cazzo ad altri, ora adotto la tecnica del fervente religioso e così, scrivendo sermoni intensi e passionali ispirati a padre Brennan (vedi video sottostante) in cui invoco Dio (uno qualsiasi) la Bestia & compagnia bella, mi crediate o meno, ricevo 9 volte su 10 le più sentite scuse -> da questo particolare la mia mente ha dedotto che queste misteriose personagge sono di fede ortodossa [non fa una piega] e di conseguenza provengono dalla Madre Russia… e dove nasce telegram? Esatto! [complottisti scansatevi che fate pena se paragonati a me] Tutto questo per dire che forse telegram mi sta suggerendo di emigrare nella terra di Esenin e Majakovskij in modo che la mia vita sessuale subisca una svolta sconvolgente, e magari anche la mia poetica?

Le seconde “connessioni” invece riguardano donne di una certà, solitamente con tumore al cervello, che si sentono in dovere di lasciarmi in eredità i loro fantamilioni di euro solo se dirò loro di credere nel loro signore Gesù & compagnia bella. A differenza delle colleghe sopra citate, queste creature femminili dicono di risidere in Francia. Al che il mio cervello i domanda: in terra transalpina il tumore al cervello è contagioso? Come sono messi a indice Rt?

Le parole sono importanti

Ieri, per l’ennesima volta, ho riguardato “palombella rossa” di Nanni Moretti. È una pellicola che adoro, come la maggior parte dei lavori del cineasta romano ma, rispetto agli altri suoi lavori, questo film ha una forza ammaliatrice su di me in quanto il tema del linguaggio e dell’uso delle parole – famosa la scena dello schiaffo che culmina con il grido rabbioso “le parole sono importanti” – riflette un percorso che sento mio.

E proprio come Michele Apicella (il protagonista) si aggrappa ai ricordi e al linguaggio per ricostruire la propria identità, allo stesso modo passeggio a ritroso nel tempo per rivivere situazioni e persone (Spore Poetiche è proprio questo) per trasformarli in racconti, riappropriandomi così della mia identità. E ciò accade proprio grazie alle parole rimaste impresse nella mente, piccoli scorci limpidi sul passato capaci di rimanere vividi.

Il mio modo di archiviare i ricordi si basa prevalentemente sull’affidarmi alla memoria – per quanto sia conscio che col tempo questa deforma i ricordi stessi – e a piccole annotazioni scritte in qualche agenda, o foglio sparso. Non conservo fotografie – ne ho pochissime – né oggetti del passato – quando qualcosa non ha più uno scopo propositivo sul mio vivere, la butto.

Negli anni ho raffinato la tecnica del “lasciare andare” persone e oggetti che, a prima impressione, parevano importanti. Ho imparato a non fare affidamento sugli oggetti materiali per “sentire” vecchie sensazioni, né tantomeno a rivedere amici/amiche di vecchia data.

A volte mi sembra di essere proiettato verso il futuro, consapevole che ciò che verrà sarà sempre più malleabile di ciò che è stato.

E voi, conservate vecchi scatoloni e bauli contenenti i ricordi di quando eravate bambini/e, o come il sottoscritto amate la “pulizia”?


P.S. anche i miei lavori letterari sono frutto di una scrematura, spesso manifestata in una splendida buberata. I miei scritti li trovi –>CLICCANDO QUI

i miei occhi

Stamattina guardavo i miei occhi allo specchio. E nello scrutarli, oltre al verde acqua intenso, leggevo i pensieri annidati nell’iride.

Non sono un tipo da autocelebrazioni, sarei più propenso a rimanere defilato o a non prendermi mai sul serio (è un modo per rimanere coi piedi per terra, e per scansare paure e timori), comunque, leggevo i pensieri attraverso il filtro dell’iride, e mi sono detto: «hai creato qualcosa di bello, e di diverso» – riferito al mio ultimo libro: Viscerotica.

Prima di investire tempo e denaro in questo progetto ho rifiutato 4 proposte da parte di case editrici, l’ultima in ordine cronologico specializzata in poesia italiana e internazionale, perché due erano indecenti, le altre perché non soddisfacevano a pieno le mie esigenze.

Ci crediate o meno, ho dedicato tre anni a questo piccolo e intenso volume, modificando versi e scartando poesie che, a ben vedere, erano poco inerenti all’idea primigenia.

Sì, i miei occhi dicevano questo stamane, e narravano di come sia giunto a pubblicare un simile lavoro attraverso travagli e pensieri messi a nudo.

Viscerotica è nata in un periodo, uno dei più intensi e dolorosi [lavorativamente parlando].

Ero impantanato in un lavoro in cui subivo mobbing e, ciliegina sulla torta, mi sentivo con una persona che, inconsapevolmente, mi “impediva” di essere me stesso. Un ex rappresentante sindacale sottomesso a lavoro, e in procinto di rotolare verso una storia che lo stava per soffocare… niente male come premessa per un nuovo lavoro letterario!

Viscerotica è nata lì, nel momento in cui mi sono detto «mai più» e, guardandomi allo specchio come ho fatto stamane, ho lasciato liberi i pensieri, le paure, i disagi. E in quel marasma che vorticava nella mia testa è uscito un unico suono: Viscerotica.

È nato prima il titolo, poi la “letteral-cosa” che conclude il volume. È nato il bisogno impellente di riprendere energie, ed esternare ciò che, fino al punto di rottura, avevo tenuto soffocato e represso.

E da questo inizio doloroso, e intenso, settimana dopo settimana sono venute alla luce poesie che parlano di sessualità, e di corporalità. Di sentimenti denudati, e di desideri urgenti.

Viscerotica è una silloge sul desiderio maschile (il mio lato maschile), e sulla carnalità perché, lo si accetti o meno, è nella carne che il desiderio si manifesta, e si fa concreto.

Il desiderio si fa carne, che a sua volta si fa poesia; la poesia si fa me, che a mia volta mi faccio sensualità.

I miei occhi verde acqua dicevano tutto ciò stamane, e potrei sintetizzare questa serie di pensieri con un’unica parola: Viscerotica.

P.S. e tu hai letto Viscerotica? Clicca qui sopra e ti spedirò una copia direttamente a casa!

i miei occhi

Viscerotica

Il nuovo libro di Alessandro Chiesurin

Viscerotica, con le sue poesie, racconta il rapporto di coppia fatto di eccessi, e sfumature. Con versi dolci e delicati, sfrontati e passionali, Viscerotica ti accompagna nell’erotismo morbido e sensuale per mostrare ciò che a volte desideri, ma non osi confessare.

Viscerotica è il lato raffinato del proibito e, poesia dopo poesia, ti seduce l’anima.


Immagina di spiare attraverso il buco della serratura.

Un brivido ti pervade la schiena, e la paura d’essere scoperto/a ti eccita tanto quanto l’ammirare il proibito.

Viscerotica è l’occhio che si dilata nello scoprire il segreto di ciò che gli è sempre stato negato.

Viscerotica è lo sguardo sull’istante in cui desiderio e curiosità si fondono in un unico caloroso abbraccio.

Viscerotica è la silloge della carne e del desiderio; della decadenza, e della passione.

Leggila, e il tuo sguardo su erotismo e poesia scorgerà nuovi orizzonti!

Scrivimi per ricevere una copia personalizzata!

Viscerotica, il nuovo libro di Alessandro Chiesurin, con le sue poesie, racconta il rapporto di coppia fatto di eccessi, e sfumature. Con versi dolci e delicati, sfrontati e passionali, Viscerotica ti accompagna nell'erotismo morbido e sensuale per mostrare ciò che a volte desideri, ma non osi confessare.
Viscerotica è il lato raffinato del proibito e, poesia dopo poesia, ti seduce l'anima


Viscerotica, il nuovo libro di Alessandro Chiesurin, con le sue poesie, racconta il rapporto di coppia fatto di eccessi, e sfumature. Con versi dolci e delicati, sfrontati e passionali, Viscerotica ti accompagna nell’erotismo morbido e sensuale per mostrare ciò che a volte desideri, ma non osi confessare.
Viscerotica è il lato raffinato del proibito e, poesia dopo poesia, ti seduce l’anima. [CONTINUA]

A mia insaputa sono diventato il protagonista di un romanzo di Philip K. Dick!

Riesci a immaginarti in una realtà alterata?

Mi sono posto questa domanda diverse volte, senza però creare nella mente un’immagine nitida fino a quando, spolverando la libreria, l’occhio mi è caduto sui romanzi di Philip K. Dick. In particolare su Un oscuro scrutatore.

In questo libro (in sintesi) Bob Arctor è un poliziotto infiltrato in una comunità di tossici/spacciatori e, a causa di una tuta speciale indossata che nasconde l’identità (Bob se ne serve quando ricopre il ruolo del poliziotto!) e l’abuso di droghe, si ritrova a spiare i propri movimenti in un perverso gioco al contrario. Il poliziotto Bob pedina il tossico/spacciatore Bob non riconoscendo il proprio volto e le proprie gesta.

Bob vive un cortocircuito tra realtà e realtà alterata.

Dovunque andrai, ti si chiederà di fare qualcosa di sbagliato. È la condizione fondamentale della vita essere costretti a far violenza alla priopria personalità. Prima o poi, tutte le creature viventi devono farlo. È l’ombra estrema, il difetto della creazione; è la maledizione che si compie, la maledizione che si nutre della vita. In tutto l’universo.

Ma gli androidi sognano pecore elettriche? – Philip K. Dick

E così, ripensando alla trama del romanzo, mi è venuto in mente lo scambio di messaggi avuto con Giorgia, un’amica romagnola. Parlando del più e del meno siamo giunti a elencare alcune situazioni di realtà alterata vissute negli ultimi mesi, con relative emozioni. Entrambi abbiamo provato:

  • senso di colpa nell’uscire per fare due passi;
  • dimenticanza della scoprire, e a volte del desiderio, dell’altro sesso;
  • percezione del “sentirsi criminali” se manifestavamo la necessità e il desiderio di vedere amici e parenti che vivono a decine, se non centinaia, di chilometri di distanza.

Sia chiaro, questi e altri pensieri sono stati passeggeri, a volte molto fugaci, ma in questo periodo di restrizioni si sono comunque manifestati, creando piccoli cortocircuiti nel nostro modo di essere e di viverci.

La realtà è quella cosa che, anche se smetti di crederci, non svanisce.

Philip K. Dick

E così mi ritrovo a vivere in un romanzo di Philip K. Dick in cui lotto contro situazioni e pensieri che, nonostante tutto, cercano di adattarsi a questa nuova realtà. E addentrandomi in questa realtà alterata, scopro che

Io stesso non sono un personaggio di questo romanzo: io sono il romanzo.

Un oscuro scrutatore – Philip K. Dick

E se io sono il romanzo ho la possibilità di riempire le pagine a seguire con la realtà che più mi calza e mi aggrada, impedendo che alcune imposizioni, o pensieri deviati, si impossessino della Mia Realtà!

P.S. questo pensiero è dedicato a chi, in questi mesi, ha lottato, o sta lottando, contro i propri demoni. Finchè hai la forza per lottare, hai anche le energie sufficienti per vincere.

LE DUE PAROLE CHE CAMBIANO IL CORSO DELLA VITA

Probabilmente conosci già la potenza di queste due semplici parole: mai più. Hanno la forza di cambiare il corso della vita perché, nel momento stesso in cui le pronunci, qualcosa scatta nell’intimo più profondo.

Immagina a come ti sei sentita/o dopo aver dichiarato il tuo amore a una persona, e questa ha reagito con freddezza. Scommetto che la sensazione iniziale è stata tremenda, e le giornate seguenti non siano state idilliache (probabilmente le definirai tra le peggiori di sempre) fino a quando, guardandoti allo specchio, ti sei detto/a “mai più”.

  • Mai più permetterò che i miei sentimenti vengano calpestati
  • Mai più mi farò incastrare da un lavoro in cui vengo sminuita/o
  • Mai più permetterò alla bilancia di dirmi che sono grassa/o
  • Mai più mi ritroverò a chiedere dei soldi in prestito, ecc.

Mai più. Quando giungi a pronunciare con convinzione queste due parole avviene la svolta, e la consapevolezza aumenta. Ma per arrivare a ciò devi prima prendere quello schiaffo morale che permette il cambiamento.

Nella mia vita, di schiaffi morali, ne ho presi un bel po’, e posso ricondurli tutti a un’unica sensazione: l’umiliazione.

Prima di pronunciare le fatidiche parole “mai più” ho sempre attraversato una fase di scoramento in cui, oltre a sentirmi patetico, ho vissuto con intensità proprio l’umiliazione, e lo rivendico. Lo rivendico perché è proprio nell’istante in cui penso ”sono una m…” che, guardandomi allo specchio, riesco a pronunciare le parole “mai più” e risollevarmi dal pantano in cui ero sprofondato. Raddrizzo le spalle, mi scruto attentamente gli occhi, e prendo quella decisione che, fino a poco prima, mi terrorizzava.

E di “mai più” ne ho pronunciati nella vita, non tanti, ma tutti custoditi gelosamente. L’ultimo, a esempio, è arrivato stamattina mentre meditavo dopo l’ennesima umiliazione, e ha portato con sé una frase che mi accompagna da anni:

quando tocchi il fondo c’è un’unica azione che puoi compiere: risalire

Me la regalò un terapista circa tre lustri fa. Era un periodo in cui vivevo come un automa. Mangiavo tanto per riempire il vuoto dovuto alla fame; lavoravo senza sosta; e durante il fine settimana dormivo fino a 14 ore filate. Se non ci fosse stata la sveglia che mi ricordava gli obblighi lavorativi credo sarei rimasto per sempre avvolto nelle lenzuola. Per fortuna le parole della mia migliore amica, e l’aiuto di mia sorella, mi permisero di incontrare il terapista che, sul finire della seduta disse «quando tocchi il fondo c’è un’unica azione che puoi compiere: risalire. Ora sei pronto per tornare alla vita, e la prossima volta che ci rivedremo sarà per farci un birra». Poco prima delle sue parole pronunciai un intenso «mai più» che mi diede una scarica di adrenalina come poche altre. La stessa scarica provata stamattina dopo una giornata in cui l’umiliazione mi aveva ridotto a uno straccio.

«Una volta, per meditare, ho passato un giorno intero senza mangiare e una notte senza dormire. È stato inutile, meglio studiare». Confucio

P.S. Sono convinto che le parole “mai più” siano impareggiabili, e che valgano più di qualsiasi consiglio, o tipica frase da social-guru. Valgono più di ogni altra cosa perché provengono dalla persona più importante: me stesso. E auguro, a te che leggi, di arrivare alla consapevolezza ideale per pronunciare un intenso “mai più” perché, in quel preciso istante, il corso della tua vita muterà direzione.

Trois couleurs : Blanc (1994) di Krzysztof Kieślowski

Mario Draghi al Quirinale

La chiamata al Quirinale di Mario Draghi mi riporta a un episodio del periodo in cui vendevo prodotti surgelati porta a porta.

Dopo una giornata in cui mi ero beccato letteralmente bestemmie a non finire, per non infierire ulteriormente sul mio morale e la mia professionalità, il coordinatore di area disse «domani cambi zona», e fu così che venni spedito sulla SR 203 agordina.

Il paese in questione ha lo stesso nome di un famoso presidente argentino di cui Madonna ha interpretato la moglie in una pellicola, e il sole picchia di prima mattina. Ancora scioccato dalla giornata precedente, ma abbastanza motivato per dare una svolta significativa all’attività, vedo una donna mentre innaffia le piante e penso “tanto vale iniziare da lei”. Con il mio bel sorriso e un pacco di cataloghi sotto al braccio, mi avvicino facendo lo splendido.

Cosa vendi, cosa non vendi, la donna si interessa ai vari prodotti e dentro di me penso “è fatta”. A supportare questa mia convinzione la signora mi spiega di svolgere la stessa attività, focalizzando i suoi sforzi solo sullo stracchino, e quindi è consapevole di ciò che devo subire porta dopo porta: in definitiva è moralmente solidale con me, nell’intimo continuo a ripetere “ormai è fatta”, e la giornata si prospetta radiosa. Ma c’è un ma.

Calabrese dall’accento che più meridionale non si può, ma capacissima di imprecare come il miglior veneto uscito ‘mbriàgo s-marxo da la hostaria, distrugge ogni mia illusione precisando che non comprerà niente, in cambio però mi regalerà una storia. La guardo, alzo le spalle, e mi accomodo sul muretto in modo che, con il getto dell’acqua, bagni anche il sottoscritto oltre ai fiori, visto il caldo insopportabile della giornata.

«Il mondo è sotto la minaccia di un’onda nera», esordisce senza troppi preamboli, e nel mentre mi domando se sia scoppiata qualche piattaforma petrolifera in mezzo all’oceano.

«Uomini vestiti di nero stanno marciando dritti dall’inferno portando il male, e la nuova torre di Babele verrà rasa al suolo»… (ndr. Metto dei puntini di sospensione per evidenziare i due occhi grandi come fanali che faccio mentre mi parla). E prosegue il discorso narrando le gesta di questo esercito, già in seno alla società, pronto a seminare morte e dolore, e con la mano indica le automobili che sfrecciano veloci tanto che finisco col domandarmi se abbia la capacità di riconoscere questi servi del male dall’andatura con cui sfrecciano sull’asfalto. E mentre lei parla, parla, parla, io mi godo l’acqua fresca con cui ha annegato tutti i fiori e lascio che il tempo scorra.

«Ora ti svelo la grande verità» mi fa greve e seria «lo sai cosa successe quando lady Diana si trovò faccia a faccia con la regina Elisabetta? Lo sai perché venne ammazzata?».

«No» rispondo con un tono drammatico quanto lo richiede la situazione.

«È stata ammazzata perché ha visto il vero volto della Bestia. Proprio così! Nel colloquio privato con la regina, Diana ha avuto tre rivelazioni: la prima, è che avrebbe avuto un figlio maschio perché così era scritto; la seconda vide cosa c’è sotto la maschera con cui Elisabetta si mostra al mondo: un serpente; e la terza, nonché la più grave, è che dopo avere conosciuto queste due verità sarebbe stata assassinata!». (ndr. per avere un’idea chiara di chi mi stia di fronte guardatevi “Omen”, quello in cui recita Gregoy Peck, e immaginate il prete portatore del messaggio con una settima di seno e l’accento calabrese, solo così avrete l’immagine chiara della mia interlocutrice).

In quel momento la voglia di riderle in faccia era talmente debordante che devo fare un autentico sforzo per mantenere un volto impassibile (e un poco commosso per la vicenda di Diana) senza rovinare l’atmosfera da tragedia che si respira nell’aria perché, ed è proprio a questo punto che voglio arrivare, la donna aggiunge che pure Mario Draghi, sotto la finta pelle, nasconde il volto di un serpente «e guai a noi se dovesse salire al potere, altrimenti l’umanità sarebbe spacciata!».

Momento di attenzione prego! Ora, viste le ultime vicende del Governo, e il pericolo incombente a cui stiamo andiamo incontro, è meglio che metta in guardia Sergio Mattarella pregandolo di rimangiarsi le parole e puntando su un’altra figura istituzionale, o chiamo direttamente Mario Draghi minacciandolo che, se non mi metterà alla guida del Ministero dell’Economia e Finanza spiattellerò la sua vera natura a tutto il mondo? E se rifiutasse, dobbiamo prepararci a un mondo popolato da Visitors? Ma, a topi, come siamo messi?

Cronaca di un assembramento annunciato

Ieri alle poste c’era l’assembramento, lo hanno portato di forza. Gente che si intrufolava senza permesso. Chi se ne usciva dicendo ho dentro mio fratello figlio unico. E chi, come il sottoscritto, se la rideva domandandosi se il locale era a rischio sanzione essendo un brulicare di insetti intenti a guadagnarsi un posto al sole, peccato piovesse. Solo ai concerti degli Slayer ho visto così tanta gente ammassata – un tempo contro le transenne, ora davanti agli sportelli – pronta a pogare. Ma si sa, è il tempo del covid e dicono si debba rispettare una distanza minima di sicurezza per salvaguardare il prossimo. Sarà. Nella mia quotidianità poco sociale e molto alienata, per quanto mi impegni nell’evitare il contatto umano e assembramenti vari, mi ritrovo sempre in situazioni caotiche degne della migliore commedia all’italiana. Proprio come ieri mattina quando, col numeretto in una mano e la bolletta dell’acqua nell’altra, mi distanziavo dall’assembramento assistendo al dramma: il misuratore di temperatura va in tilt; un insetto pigia pulsanti a caso sancendo la dipartita dell’aggeggio incriminato; si palesa l’addetta postale dando vita al classico capannello di curiosi e curiose; fine del rilevo temperatura per i presenti nel locale; marasma generale. Ma, tirando le dovute somme, mi viene ancora da esclamare “andrà tutto bene” – per chi non è dato saperlo.

Dimenticavo: ho detto che fuori pioveva?

Raining blood, from a lacerated sky, bleeding its horror, creating my structure, now I shall reign in blood!

La mia passione per il cinema

Ho già parlato della mia passione per il cinema (limpido esempio in questo ARTICOLO), e questa volta voglio condividere con voi le pellicole che, in un modo o nell’altro, sono state fondamentali per la mia crescita (la sequenza è casuale, salvo per Bergman). Chissà, magari i titoli vi sono noti e la lista vi fa scattare la molla per riguardare qualche film. O magari le pellicole elencate vi sono sconosciute e questa potrebbe essere l’occasione per scoprire qualcosa di nuovo e particolare.

Se una di queste pellicole vi è cara, sarei curioso di sapere perché vi ha colpite/i..

  1. Il settimo sigillo (Ingmar Bergman, 1957). Una delle tematiche più affascinanti, per il sottoscritto, è la morte, e solo Bergman poteva renderla così affascinante e poetica. Potrei elencare come minimo altre 10 pellicole del maestro svedese, ma Il settimo sigillo è cosa a parte.
  2. Sesso, bugie e videotape (Steven Soderbergh, 1989). Adoro questa storia perché vi leggo una parte di me. Non servono altre spiegazioni.
  3. Trainspotting (Danny Boyle, 1996). Per me è terapeutico, chiarificatore, divertente.
  4. Caro Diario (Nanni Moretti). Moretti sa descriversi con intelligenza e umorismo. Un maestro per me.
  5. Lawrence Anyways e il desiderio di una donna (Xavier Dolan, 2012). Uno dei pochi film capace di farmi saltare sulla sedia mentre ero al cinema, perché? Prova a scoprirlo.
  6. Niente da nascondere (Michael Haneke, 2005). Freddo, tagliente, preciso, profondo come tutta la cinematografia del regista austriaco. Se non l’hai visto, rimedia.
  7. L’uomo che amava le donne (François Truffaut, 1977). Se ti affascina il mondo femminile non puoi non aver ammirato questo gioiello di Truffaut.
  8. La collezionista (Eric Rohmer, 1967). Come nessuno prima e dopo di lui, Rohmer sa descrivere alla perfezione l’animo umano e i rapporti interpersonali. Le sue pellicole mi rapiscono sempre, e La Collezionista è l’apice della sua maestria.
  9. Delitto e castigo (Aki Kaurismäki, 1983). Una memorabile trasposizione del capolavoro di Dostoevskij in una Helsinki moderna e desolata. Il viaggio scarno e pulito nella mente di un omicida.
  10. Ordet (Karl Theodor Dryer, 1955). Un film intriso di religione, e dubbi connessi a esse, come pochi altri. Cosa faresti se tuo figlio si comportasse e parlasse come Gesù Cristo?
  11. Tutto su mia madre (Pedro Almodóvar, 1999). Adoro i drammi, e in questa pellicola Almodovar riesce a rendere tutto sublime. P.S. (per apprezzare a pieno questo film ti consiglio di vedere La notte della prima di John Cassavetes, e Un tram che si chiama desiderio di Elia Kazan).
  12. Racconto di Natale (Arnaud Desplechin, 2008). Un racconto corale di voci e protagonisti magistralmente creati e armonizzati. Da Vedere assolutamente in qualsiasi periodo dell’anno.
  13. Orizzonti di gloria (Stanley Kubrick, 1957). Certamente è tra i film meno conosciuti del regista ma, a mio avviso, assieme a Il dottor Stranamore (ovvero come imparai ad amare la bomba atomica) il migliore. Un inno antimilitarista. Uno dei finali più belli della storia del cinema.
  14. Tutti giù per terra (Davide Ferrario, 1997) Mi diverte sempre, e comunque, perché rivedo la mia gioventù; i miei timori; le mie paure; la mia incazzatura col mondo (ho parlato anche del romanzo di Culicchia da cui è tratto, LEGGI QUI).
  15. L’estate di Kikujiro (Takeshi Kitano, 1999) nonostante i film sulla mafia giapponese di Kitano mi facciano letteralmente impazzire, la dolcezza sbarazzina e la cruda poetica di questo film lo pongono in cima alla lista del grande comico e cineasta giapponese.
  16. La sfida del samurai (Akira Kurosawa, 1961). Conosci Per un pugno di dollari di Sergio Leone? Si? Bene, sappi che è un remake di questa divertente pellicola di Kurosawa e, come amava dire il cineasta giapponese “ho inventato lo spaghetti western con 8 anni di anticipo”.
  17. L’assassinio di un allibratore cinese (John Cassavetes, 1976). Il miglior film di Cassavetes, a mio giudizio, è Faces, ma la figura di Cosmo Vitelli ti entra dentro, c’è poco da fare, e l’aura malinconica del suo locale di spogliarelliste è stupenda.
  18. Stalker (Andrej Tarkovskij, 1979). L’apice dell’arte cinematografica e della filosofia. Se non l’hai visto ti sei perso/a uno dei capolavori della settima arte.
  19. Film Bianco (Krzysztof Kieślowski, 1994). Ero indeciso tra questo titolo e Cineamator, ma ha vinto il secondo film della serie dei colori. Una storia d’amore incredibile e unica, da rivedere 1000 volte.
  20. Clerks (Kevin Smith, 1994). Irriverente, divertente, sfacciato. Semplice, ma potente.

Cosa c’è di bello a Miane?

Cosa c’è di bello a Miane? È una domanda a cui non riesco a rispondere. Attrattive turistiche ce ne sono poche, salvo la natura. Quindi, se non sei disposto/a a faticare, il bello finisci per ignorarlo, e ti ritrovi a guardare un paese anonimo come tanti.

Amici e conoscenti rimangono sempre interdetti a queste mie parole, ma è così.

In mia difesa però posso dire quanto sia bella Miane d’autunno – per la precisione nel periodo compreso tra il post-vendemmia e i primi giorni d’inverno.

Nelle giornate serene, in cui il sole si dimostra clemente, i boschi e le viti si vestono con colori caldi e ti rapiscono lo sguardo col loro manto fatto di sfumature verdi e rossicce. In quelle giornate ti sembra di camminare all’interno di un giardino creato su vasta scala.

E che dire dei suoi boschi? Li ho percorsi in lungo e in largo sia di giorno, sia di notte; col sole, e con la pioggia; durante le nevicate, e quando le nuvole scendevano a valle senza remore serrandomi all’interno di una cinta grigia e impalpabile. Sì, i suoi boschi sono stupendi, soprattutto quelli di castagni (sono ghiotto di marroni e castagne e sin da bambino mi diverto a raccoglierle).

E poi ci sono i monti. C’è stato un periodo in cui, uscito da lavoro, mi preparavo un pasto veloce e poi salivo al Monte Crep per consumarlo ammirando il tramonto farsi notte. Mi piaceva vedere la pianura veneto-friulana illuminarsi, e percorrere il tragitto di ritorno accompagnato dai raggi lunari o dl chiarore delle stelle con in sottofondo i versi degli animali notturni.

Quegli stessi monti che, se sai quando è il momento giusto per salirci, riesci a stupirti per il panorama che ti si presenta davanti. Una vista che si estende dai Colli Euganei fino alle coste dalmate, con una tappa intermedia (e doverosa) sulla laguna veneta in cui, grazie ai raggi solari, risplende la cupola di San Marco.

Lo so, ma in concreto, cosa c’è di bello a Miane? È difficile rispondere. È il mio paese natale, e i molti ricordi annebbiano il giudizio. È come un dente un poco guasto: se lo lasci tranquillo dimentichi la sua presenza, ma se vai a stuzzicarlo con la lingua è capace di farti patire le pene dell’inferno. E Miane è così, se scavo troppo a fondo nella sua bellezza finisco per trovare anche il marcio. Ma in questo momento voglio dedicarmi al bello, e tralascio le storie oscure.

Comunque, se devo rispondere alla fatidica domanda con un luogo fisico specifico, faccio il nome di un’attrattiva celata nel bosco e a cui si arriva con una bella scarpinata (ed è una fortuna così in pochi la raggiungono): il Pont de la Val d’Arch. Cos’è? Ti basta guardare la fotografia scattata qualche anno fa, vale più di mille parole.

Pont de la Val d’Arch

E di bello, a Miane, c’è l’atmosfera silenziosa tipica delle nevicate abbondanti (ahimè sempre più rare). Camminare nel bosco e sentire quel magico crepitio prodotto dagli scarponi sulla neve fresca. Guardare il mondo fermarsi per lo stupore, e sentire il rumore dei rami spezzati dal troppo carico.

E c’è molto altro ancora. Luoghi, poco frequentati, che conservo per me perché custodi di ricordi. Se un giorno dovessimo trovarci di fronte a una birra potrei raccontare aneddoti degni di essere ascoltati. Storie di personaggi assurdi, e situazioni esilaranti; momenti tragici, e figure quasi epiche.

A Miane c’è questo e altro, ma cosa ci sia di (a)effettivamente bello ancora non l’ho capito, e forse è giusto così.

Piccola curiosità: il grande poeta Andrea Zanzotto dedicò una poesia a Campea (una delle frazioni di Miane) e, se fosse vivo, senza troppi giri di parole gli chiederei: «’scolta qua Andrea, caxo atu vìst de bel a Campea? Spiegame ‘n pòc parchè mi son teston».


Quando scoprii lo yoga

Quando scoprii lo yoga, in uno dei libri letti sul tema, si accennava al fatto che, nel proseguimento costante della pratica, il desiderio di cibarsi di carne bianca e rossa si sarebbe affievolito fino a sparire. Da carnivoro qual ero, rimasi interdetto leggendo tali parole ma, con lo trascorrere delle settimane e della pratica costante, mi accorsi di acquistarne sempre meno, fino a eliminarla completamente dalla dieta. Credo siano passati almeno 7 anni da allora, e i cambiamenti fisici e mentali li percepisco a pieno ora. Un mutamento che apprezzo giorno dopo giorno. Ma la storia che voglio raccontare è un’altra, e il preambolo mi è servito per raccontare le ultime vicende alimentari.

Belluno, zona Baldenich. Tra mercoledì e venerdì aiuto il mio titolare nella posa di una pergola, e le pause pranzo le trascorro proprio nel locale interessato. Una parentesi lavorativa nuova e interessante, segnata dal piacere e dalla soddisfazione del lavoro fisico in compagnia di altre persone dalle esperienze professionali più disparate.

Mercoledì, poco prima di mezzogiorno, una delle cameriere esce a chiedere che tipi di panini vogliamo. Formaggio e mortadella per uno. Due con prosciutto e formaggio. Per me uno senza carne, rispondo sorridendo. Come lo faccio? Col formaggio, ne sono ghiotto. Ma il formaggio è fatto col latte di mucca voi vegani non potete mangiarlo. Mai detto di essere vegano ho solo chiesto di evitare gli affettati e se vuoi mettermi del salmone sarò doppiamente felice. Te lo faccio vegetariano. Perfetto. E se ne va scuotendo la testa come avessi chiesto dell’oro a prezzo scontato.

Giovedì mi precisa di aver preparato un panino uguale al giorno prima con tono ammonitorio, e venerdì mi becco la titolare. Volete la salsa rosa con i panini e i toast, chiede a tutti. Per me no grazie, il panino va bene così. Lo domando perché con voi vegetariani non si sa mai. (…) La guardo, sorrido, e mi domando se i vegetariani boicottino con ardore la salsa rosa.

Arrivato a casa faccio una ricerca in rete ma non trovo nulla. Il dubbio mi assilla tanto da generare veri e propri viaggi mentali in cui sfilano cortei di nazi-vegani/vegetariani brandire cartelli con scritto: al bando la salsa rosa simbolo opprimente della massa carnivora. Liberiamoci dall’aggressione carnivoro-borghese. No salsa rosa. Tutto questo solo per aver chiesto un panino senza carne. E questa è una delle tante vicende che mi capitano quando mangio fuori casa. Ci ho tatto il callo, ma qualche domanda me la pongo ogni volta. Intanto la veranda con pergola è venuta una meraviglia, e i pensionati (durante e nel post cantiere) hanno fatto i complimenti per il bel lavoro, e nessuno di loro ha avuto da ridire a riguardo la mia dieta personale. Continuo a fare yoga ogni mattina, e l’odore di carne morta continua a darmi fastidio. Ma voi, la mangiate la salsa rosa? E la carne? Vi è mai capitata una situazione simile? E soprattutto, ce l’avete un pensionato che vi fa i complimenti per il lavoro svolto?

La scuola?

La scuola? L’ho sempre detestata. Era un’istituzione che, per il sottoscritto, doveva essere cancellata dalla terra seduta stante.

All’asilo scappavo perché volevo tornare a casa dalla mia sorellina. Alle elementari avevo il terrore della maestra e spesso fingevo di dimenticare a casa la cartella per tornare sui miei passi. Le medie sono state un buco nero di insulsaggine e apatia. Le superiori le ho amate solo alla fine (tanto da averle prolungate di altri 2 anni). Per farla breve, non ero quello che si definisce uno studente modello.

Tornando ai pochi anni buoni di quel periodo, potrei stuzzicarvi l’appetito raccontando qualche marachella, o bricconata, ma temo che i reati in questioni non siano ancora caduti in prescrizione e, con cognizione di causa, sorvolo facendo finta di nulla. In alternativa potrei spiegare le cause delle due bocciature, ma sono fatti di normale amministrazione e rischierei di annoiarvi con le classiche beghe alunno/insegnanti. Oppure potrei dedicare questo spazio alla professoressa di inglese del quarto anno, ed è proprio quello cha farò.

Inizio così, senza troppi giri di parole. La suddetta insegnante aveva una qualità: era maggiorata. Si portava appresso una sesta con molta nonchalance, e il mio pensiero (e lo sguardo) era sempre rivolto alle due gemelle. Rappresentavano la mia Eldorado — e non fate i bacchettoni/e, sono una persona genuina, dico pane al pane, vino al vino, e tette alle tette; questo blog è mio e scrivo ciò che mi pare e piace!

Fatto sta che la professoressa in questione prese a cuore la mia rabbia giovanile e a volte, durante la lezione, mi invitava a prendere la sedia e accomodarmi accanto a lei alla cattedra. Ero in paradiso. E a rendere ancora più speciali quei momenti era il fatto che mi chiamasse per nome (mai per cognome come facevano compagni e professori). E io stavo lì, tra il beato e il rincoglionito, a rispondere alle sue domande mentre il resto della classe svolgeva qualche esercizio.

Perché giri coi jeans strappati. Perché li preferisco così. Che musica ascolti. Il grunge. Hai problemi a casa. Ho un unico problema: la vita. E via con una serie di domande a cui rispondevo sinceramente cercando di non far cadere l’occhio proprio sulle gemelle (problema che mi affligge tutt’ora con le maggiorate e non) sentendo in sottofondo il brusio dei compagni che avrebbero pagato oro per essere seduti al mio posto e ricevere le attenzioni della bella professoressa.

E poi un giorno, dopo la classica lista di domande a cui seguivano risposte preconfezionate, e nel mentre i miei occhi decisero di assecondare la legge di gravitazione universale cascando dove dovevano cascare, la professoressa ebbe l’ardire di chiedermi come trascorressi i pomeriggi, e perché studiassi così poco. Cosa risposi? Fischiettai. E non un motivetto a caso. Decisamente no. Fischiettai la sigla di una serie tv molto in voga in quegli anni, e mi feci una grassa risata sotto ai baffi. Tranquilli/e, se la curiosità vi prude con la stessa intensità con cui mi prudevano le mani quando sedevo accanto alla bella maggiorata, vi basta cliccare sul tasto play del link sottostante, e viaggiare con la fantasia 😉

Le scarpe bianche — In punta di dita

Quando entri in carcere ti porti dietro quell’aria sorniona di libertà, quel semitono presuntuoso nel fare le domande, quella voglia inspiegabile di sapere, di gettare lo sguardo oltre il cancello. Quando entri lo fai sapendo di poter uscire e pensi che quella sia la sola differenza che conta veramente. Ma quando varchi la soglia ti […]

Le scarpe bianche — In punta di dita

Condivido questo articolo, racconto, pensiero (chiamatelo come più vi aggrada) di un’amica molto speciale. Perché mi piace? Arriva dritto al punto, ma con leggerezza, proprio nello stile di Francesca. E qui mi fermo o rischio di tessere troppe lodi alla diretta interessata 😀

Cliccando sulla X verrete catapultati/e verso l’intero articolo. Se cliccate sopra l’immagine delle scarpe andrete direttamente al blog 😉

Oggi mi dedico a elencare le cose preferite, e non

Oggi mi dedico a elencare le cose preferite, e non.

Cose che non mi piacciono:

  • Gli estremisti
  • Il politicamente corretto
  • Il radicchio (soprattutto quello rosso)
  • Il melone
  • L’ananas (lo detesto)
  • I ragni (ho il terrore)
  • Le “maestrine”
  • I cazzari
  • I libri gialli/thriller (salvo rare eccezioni)
  • La Panda
  • Il sesso triste
  • Gli assembramenti
  • Le scorciatoie
  • Nel mio fisico: il neo sul braccio sinistro
  • Alzarmi tardi dal letto
  • Tom Hanks
  • L’immobilità
  • Le chiacchiere a vuoto
  • Il traffico
  • L’assenza di verde
  • I falsi miti
  • I/le radical chic
  • Passare sopra a un fiume

Cose che mi piacciono:

  • La montagna
  • Il sesso
  • Correre col buio per godere del silenzio e dell’incontro con gli animali selvatici
  • Gli estremi
  • L’erotismo
  • La complicità
  • Il caffè amaro
  • Il formaggio
  • Il pane
  • Le castagne
  • Camminare nel bosco sotto la pioggia
  • Fare il “mona” (per usare un’espressione veneta)
  • Andare al cinema
  • Il cinema in generale (soprattutto quello d’autore)
  • Il cinema di: Nanni Moretti, Eric Rohmer, Aki Kaurismäki, Ingmar Bergman, Pedro Almodovar, Takeshi Kitano
  • Yoga
  • La politica (anche se in certi momenti la detesto)
  • Le donne sincere e schiette, intelligente e argute
  • I drammi
  • Yukio Mishima
  • Il mare d’inverno
  • L’autunno
  • La scrittura (soprattutto per fare chiarezza con me stesso)
  • I colori: rosso, marrone, verde, grigio
  • Nel mio fisico: occhi, il neo sulla caviglia destra
  • Heavy metal e rock
  • La lettura
  • La filosofia orientale
  • Lo splatter
  • Reinventarmi
  • Il sorriso e lo sguardo di mia nipote
  • Stilare liste (lo faccio spesso)
  • La comicità, soprattutto quando è scomoda
  • Le tette (il mio unico e grande amore, assieme al caffè)

Sicuramente ho dimenticato molte cose, altre le ho omesse volutamente.

E voi, cosa amate o detestate?

foresta del Cansiglio

Oggi piove

Oggi piove, e l’aria è carica del gelo dovuto alla neve che arriverà. Lo so grazie alla solita sensazione lungo la spina dorsale. Il mio sensore personalizzato che indica cosa accadrà.

Oltre alla pioggia ci sono degli operai, dalla parlata trevigiana, al di là della vetrata. Fanno battute concernenti i frequentatori del Piave.

«I và in xerca de capełoni» e, sentendoli ridacchiare, la voglia di chiedere loro come facciano a essere così informati sulla materia, è tanta. Parlate per esperienza? Ma lascio perdere e ascolto le battute di basso rango a cui seguono risate forzate. Sentire lo straziante sarcasmo, e quel falso divertimento, mi stimola un unico pensiero: gettarli di peso nel Piave – ogni tanto mi scatta la sana violenza, è uno dei molti pregi che tendo a nascondere.

Ora si trovano sopra la mia testa, intendo al piano di sopra, e sistemano sedie e arredo per i vari uffici. Allestiscono una nuova realtà prossima all’apertura. E se salissi per immortalarli in una fotografia da caricare sul blog e dare così un impatto visivo a queste parole? Temo però, udite mio malgrado le battute con cui hanno riempito la mattinata di riferimenti fallici, sarebbero capaci di abbassarsi i pantaloni per mostrare la mercanzia e dare il tocco finale alla goliardata. Magari assumendo le stesse pose tenute dal sottoscritto, ‘l Dur, e J. C. di Pittsburgh qualche anno fa.

Siamo sulla A27, precisamente all’aera di sosta Piave Ovest, muniti di una macchina fotografica usa e getta, e in preda ai fumi dell’alcol. Stiamo tornando a casa dall’ennesimo concerto metal (non ricordo quale purtroppo) e nelle nostre menti annebbiate risuonano gli echi delle note metalliche. Ci facciamo una birra (giusto per mantenere il livello di sbronza), e ci sfondiamo con quello che in veneto amiamo definire panìn onto. J. C. di Pittsburgh emette un rutto degno di un a solo di Mike Terrana e controlla l’indicatore dei fotogrammi rimasti a disposizione. Carica la macchinetta e insiste per farci una foto stipati dentro la cabina telefonica. Esaltati dall’alcol eruttiamo la brillante idea di imprimere sulla pellicola sederi e testicoli lì, in una triste stazione di servizio alle 3 di notte urlando contro Satana e i camosci.

E poi le risate. Scoppiano fragorose e irresistibili – non come quelle degli operai sopra la testa. Le nostre sono sane e alcoliche, divertite e spensierate. Le risate esilaranti di chi immagina la faccia che farà lo sfortunato sviluppatore del rullino.

Era una notte nei primi anni del 2000 e, come oggi, l’aria era fredda e piovigginava un po’. Il metal era una costante di molte serate e noi, come bambini discoli, esibivamo i gioielli di famiglia fregandocene del mondo imprigionato fuori dalla cabina telefonica.


P.S. oggi comunque non piove, questo racconto l’ho scritto ieri


a proposito di Mike Terrana… inconfondibile alla batteria