Nella mia routine

Nella mia routine l’ascolto della radio non manca mai. Radio Marilù è la stazione preferita per la musica; Radio 3 e Radio Radicale per informazione e cultura (un tempo mi dilettavo con Radio Popolare); Radio 1 in prevalenza per sintonizzarmi su Tutto il calcio minuto per minuto perché lo considero un programma utile da cui prendere spunti da utilizzare nel momento in cui scriverò un articolo sportivo. La radio, per sintetizzare, mi accompagna sempre, anche mentre sono al volante. Tipo ieri sera, mentre rientravo da Treviso, al giornale radio regionale passa una notizia: ragazza 29enne trovata morta in una camera d’albergo; possibile causa: overdose da sostanza stupefacente.

La mia mente ha ricreato all’istante una stanza dalle pareti color crema, stessa tinta per lenzuola e tende. Una finestra da cui filtra una pallida luce mattutina. Una sagoma indistinta adagiata in malo modo sul letto. Poi compare la figura dell’albergatore – chissà perché lo immagino maschio. Lo vedo con il ventre un poco gonfio (magari a causa di qualche ombreta di troppo), leggermente calvo, fermo sulla soglia con una mano sulla fronte. Il suo primo pensiero sarà stata una bestemmia, dovuta alla trafila burocratica per la situazione così estrema, oppure un’esclamazione tipo puàreta? È una domanda lecita, quanto le sue possibili reazioni. Poi la mia attenzione si focalizza su lei. Mi chiedo se fosse consapevole di andare incontro alla morte in un’anonima stanza d’albergo, o se fosse solo alla ricerca di un luogo appartato per placare momentaneamente i demoni che le divoravano l’anima. Sono quesiti a cui mai avrò risposta, e nemmeno mi interessa. A volte è poco importante.

Di questa triste notizia mi ha colpito la ricerca di un luogo asettico, lontano da sguardi indiscreti, per trovare una pace ultima, o effimera. È un comportamento tipico del mondo animale quello di rintanarsi in una zona buia e nascosta per esalare l’ultimo respiro. Un comportamento dignitoso, e oserei dire venato di poesia.

La mia affermazione farà storcere il naso a molti/e perché, a primo acchito, pare sminuire il dramma. Non è così. In quella ragazza, di cui nemmeno conosco il nome, leggo una profonda solitudine e un bisogno disperato di placare, come ho detto in precedenza, i propri demoni. È nella disperata ricerca di serenità, e di un luogo adatto a esprimere il dolore strisciante, che scorgo poesia. La stessa poesia capace di farmi provare del profondo rispetto per un’anima che solo attraverso la morte è riuscita a raggiungere la pace agognata.


classica espressione veneta per indicare un bicchiere di vino, da non confondersi con il calice

traduzione: povera


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Ho una cicatrice indelebile…

Ho una cicatrice indelebile causata da ciò che avvenne presso la stazione ferroviaria di Bergamo in una giornata afosa e appiccicaticcia. A spingermi nel capoluogo orobico con la mia R5 bianco panna, in pieno agosto, fu la prospettiva di trascorrere tre giorni in compagnia di una ragazza.

Con IB avevo intessuto un fitto dialogo tramite la chat di un noto operatore telefonico e, discorrendo di argomenti vari, si giunse al punto di ciarlare d’erotismo tanto da scoprire che il suo interesse sessuale nei miei confronti era pari alla mia curiosità nei suoi riguardi. Senza troppo rimuginare se fosse giusto o meno soddisfare tale curiosità, salii in macchina diretto in Lombardia.

Di IB conservo l’immagine di un viso carino (non ancora di donna) segnato dagli sfoghi dell’acne e leggermente nascosto dalla montatura retrò degli occhiali. Allo stesso tempo, la memoria, vacilla sui dettagli riguardanti le sue forme, e la causa è presto detta.

Appena ci incontrammo IB tenne a precisare il desiderio di conservare la propria illibatezza per la prima notte di nozze e, in conformità a tale decisione, mai si sarebbe denudata al cospetto mio o di qualsiasi altro maschio fatta eccezione, ovviamente, del futuro consorte. Tale risoluzione era dovuta, sottolineò, per non cedere alla vertiginosa tentazione che viene a crearsi tra due corpi svestiti. Dal mio punto di vista le premesse per un erotico soggiorno sfumarono dopo pochi scambi di battute, e i 250 km percorsi con l’idea di introdurre il mio pene nella di lei vagina rischiavano di tramutarsi in una beffa bella e buona. La certezza di passare tre notti in albergo con me stesso come unico compagno era tutto fuorché eccitante ma, come si addice alle migliori sceneggiature, IB si rivelò a suo modo sorprendente.

Al giro turistico della città Alta, la ragazza bergamasca unì una smodata passione per il mio sedere (manifestata in continui palpeggiamenti) e una sana dimostrazione della propria arte nella pratica della fellatio manifestata nei posti più improbabili — che l’idea di mostrarmi i luoghi dell’infanzia fosse solo un pretesto, lo capii subito.

In IB, nonostante la mia ingenuità, percepii il bisogno spasmodico di scontrarsi con un passato opprimente. Mi regalò pompini davanti al collegio clericale frequentato per tutto il percorso scolastico; al campo di calcio in cui assisteva, senza mai partecipare, alle partite del fratello con gli amici; sotto al porticato usato dai clochard come tetto d’emergenza. E fu proprio qui, dopo aver raggiunto l’orgasmo, che mi avvidi della presenza di uno spettatore e quando lo feci notare IB rispose che, se ero stato condotto in quel luogo, un motivo doveva pur esserci. Ma, e qui lo confesso, la compagnia di IB e la bellezza di Bergamo Alta sono ricordi marginali rispetto a ciò che avvenne alla stazione ferroviaria.

L’ora convenuta con IB per l’incontro era mezzogiorno e, come spesso mi capita, vi giunsi con qualche minuto d’anticipo. Nel mentre decidevo se farmi una birra al bar, oppure trascorrere quei pochi minuti d’attesa in macchina, la vidi arrivare.

Aveva lunghi capelli corvini che le coprivano gran parte del viso, e un passo deciso nell’instabile equilibrio. Indossava una maglietta grigia, nel taglio simile a un camice ospedaliero, e dei jeans logori. Si sedette di fronte alla mia automobile e compì gesti precisi con estrema naturalezza. Scorsi nei suoi occhi un barlume d’estasi mentre l’eroina entrava in circolo. La vidi sorridere inebetita poco prima di cedere al torpore stupefacente. Alienato dalla situazione fui capace solo d’ingranare la retromarcia e andarmene, scordandomi pure di IB. Quello spettacolo, così crudo e ipnotico, lo sentivo (e tuttora lo è) troppo vicino e doloroso. La necessità di lasciarmelo alle spalle, cancellando dall’immaginario quegli attimi in modo definitivo, era un proposito che sentivo impellente. Fallii, e queste righe ne sono la testimonianza.

E mi dispiace ammettere l’incapacità di rendere partecipe te che leggi dell’atmosfera creatasi in quei pochi minuti a cavallo di un torrido mezzogiorno bergamasco inzuppato dal sudore di due perfetti sconosciuti. Due, come i pallidi volti imperlati di gelide gocce. Due, come i colori che poco si sposavano in quel triste quadro. Una pennellata verde, per descrivere l’aiuola in cui giaceva una delle innumerevoli solitudini di cui è costellata la vita; l’altra grigia, per una maglietta poco chic stagliata davanti alla facciata di una stazione.

E ora, cercando di attribuire un significato a un evento che chiedeva solo d’essere vissuto senza giudizio alcuno, mi pongo nudo davanti allo specchio per rileggere quegli attimi con sguardo esterno e conto le numerose cicatrici (tangibili e non) disseminate lungo il mio corpo. Minuscoli squarci come quelli presenti nell’avambraccio della giovane sconosciuta. Piccole lacerazioni che, se unite da un’ipotetica linea, tracciano la figura attuale che risponde al mio nome.


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