È la nostalgia bastarda

È la nostalgia bastarda a fotterti con ricordi e sensazioni fasulle. Prendi a esempio stamattina. Esco di casa per bere un caffè con Sara dopo mesi dall’ultimo incontro e scopro il cielo terso anche se una leggera nebbia, creata dalle acque del Piave, sembra divertirsi a nascondere il mondo circostante. Mancano pochi minuti alle nove e il termometro segna 0°C e l’aria è pungente (tipica del post nevicata in quota) e carica di quegli odori del periodo a cavallo tra autunno e inverno. E la nostalgia bastarda mi sbatte in faccia vecchi ricordi lontani di quando facevo il militare nel Friuli. Riodoro i profumi portati dal vento e ricreo mentalmente le vette sagomate della Carnia in lontananza. Era tutto diverso, ecco la frase sciocca con cui i ricordi iniziano o terminano. Era tutto diverso: vocaboli inutili per bollare un passato “idilliaco” deformato. Correva l’anno dell’attentato alle torri gemelle, e dell’assegnazione della palma d’oro a Moretti per lo stupendo “la stanza del figlio”; in estate nasceva il secondo governo Berlusconi e nel febbraio iniziavo la mia vita da milite in coincidenza con la strage famigliare di Nove Ligure. E com’era la vita presso il famigerato EI, mi domanda qualcuno? A ripensarci sorrido ma, a quel tempo, mica ridevo tanto. Era l’attesa snervante di un evento che, ridotto all’osso, pareva essere solo un miraggio. Era la bolla di un mondo chiuso in se stesso. Gli unici momenti di vero svago erano i viaggi divertenti e spassosi in camion o automobile. Transitavamo per paesini dai nomi improbabili in cui gli anziani ciarlavano in una lingua quasi incomprensibile, e percorrevamo strade deserte in cui ci divertivamo a fare peripezie con l’automobile colorata come le nostre divise. E ci fu la volta in cui, complice una consegna alla caserma di Tauriano, Angelo e io prendemmo la motivata decisione di gironzolare tra i carro armati a bordo della nostra vettura verde vomito. Nemmeno al cospetto degli Antichi lovecraftiani lo stupore orrorifico avrebbe raggiunto simili picchi d’indicibile sorpresa. I cingolati seminatori di morte ci lasciarono letteralmente a bocca spalancata tanto che, per scacciare lo stato catatonico in cui eravamo piombati, nel ritornare al nostro reggimento pensammo bene di rischiare un cappottamento per colpa di un freno a mano troppo maldestro in pieno rettilineo. E poi ancora, in una giornata simile a questa, mi capitò di accompagnare all’aeroporto di Ronchi dei Legionari il cappellano del reggimento, un omino a tal punto impaziente di spiccare il volo che, forte del proprio grado di Maggiore (chissà se guadagnato sul campo) intimò me e l’autista di sorvolare su divieti e sensi unici perché voleva bersi un caffè in tranquillità prima della partenza. Forse fu dovuta a quella commistione tra forze divine e militari se la folle corsa si risolse con un enorme successo tempistico tanto da garantirci una benedizione da parte del cappellano con relativo santino che, non appena girai i tacchi, gettai nella pattumiera. O forse fu solo la classica botta di culo. E fu sempre in una giornata di cielo terso a cavallo tra autunno e inverno a rivelarmi quanto, nei mesi targati EI, fossi stato vicino alla casa d’infanzia di quel Pasolini che, anni dopo, “incontrai” negli Scritti Corsari — lettura tanto speciale da cambiare la mia vita. Sì, la nostalgia è bastarda, e in giornate come quella odierna mi fotte coi suoi ricordi deformati ma, lo confesso, senza di essa la vita sarebbe insipida.


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il ponte vecchio di Borgo Piave – Belluno

Cleo

Disse di chiamarsi Cleo; non indagai oltre. Mai ho saputo il vero nome e, di lei, ho perso ogni contatto. Proveniva dal sud e a separarci, oltre al vissuto personale, c’erano 17 anni di differenza. Lei ne aveva circa 40, io ero poco più che ventenne. Ero uno sbarbatello, ma consapevole di esserlo.

Ci ritrovammo, senza troppi giri di parole, nudi e disposti a consumare un desiderio furioso all’interno della sua automobile avvolti in una passione fulminea iniziata con qualche carezza e poco altro. E fu mentre ero intento ad assaporare le sue calde labbra che il marito telefonò.

La reazione istintiva fu di staccarmi dalla parte nobile di quel corpo voluttuoso ma, con impeto furioso, Cleo mi ricacciò la testa tra le gambe pregandomi di continuare mentre parlava con il proprio uomo. Dove sei, cosa fai, con chi sei, quando rientri. Queste erano le domande a cui la udii rispondere. Quesiti che accesero la mia curiosità più della stessa carica erotica in cui ero invischiato. Salutò il marito spegnendo il cellulare poco prima di raggiungere l’orgasmo, e subito dopo chiese di essere penetrata perché desiderava raggiungessi il mio, di traguardo, tra le sue cosce. La mia impresa fu tutt’altro che epica, da sbarbatello quale ero la vista di tale abbondanza sensuale mi procurò vertigini imperiose e un orgasmo repentino. Con la stessa velocità con cui venni, ci rivestimmo alla ricerca di un contegno formale. Fu durante quei semplici gesti che Cleo mi raccontò la propria storia.

Da qualche anno si era trasferita seguendo il marito e il miraggio di un posto di lavoro. Lui s’era reinventato la propria esistenza nel bellunese grazie alla nuova occupazione e alle conoscenze derivanti da questa; lei no. Solo un’amica, tra l’altro corregionale, pareva disposta ad ascoltare i suoi pensieri e a condividere i momenti vuoti della giornata, e nessun altro. Nonostante la famiglia, Cleo si sentiva sola.

Per un lungo periodo, mi confidò, era precipitata in un vuoto privo di emozioni e stimoli. Ero depressa, disse candida candida, e riuscii a trovare uno spiraglio di luce durante una serata in discoteca. Un ragazzo la invitò a ballare, dopodiché si ritrovarono a fare sesso appartati in un parcheggio. Lì ho ricominciato a vivere, disse con malizia ripensando al momento, e per me è iniziata una nuova fase esistenziale tendente alla ricerca di un piacere che prima mi era negato. Mi raccontò del nuovo amico, un trentenne di Cortina con cui trascorreva ogni fine settimana (lasciando figlio e marito a casa), e divenuto presenza stabile nella sua routine; e mi elencò i nomi degli altri ventenni (come il sottoscritto) amanti passeggeri di breve o lunga durata – giovani brandelli esistenziali per una Madame Bovary del XXI secolo.

Come altre esperienze significative della mia vita ho rimuginato spesso sugli istanti di quella serata e, nei primi tempi, ricordo di aver pensato a Cleo appellandola – molto stupidamente – con un epiteto poco signorile. Ero incapace di immedesimarmi. Ero inadatto ad affrontare la questione da uomo. In seguito, accumulando esperienze e raffinando l’empatia, quella stessa espressione che un tempo aveva un’accezione negativa, è divenuta per me sinonimo di libertà e spensieratezza. Trascorsi quasi 20 anni quel ricordo è ora piacevole quanto lo è stata quell’esperienza di libertà, per molti poco convenzionale, trasmessami da Cleo.

Lei fu una delle prime donne a condividere con me, oltre ai piaceri della carne, i propri tormenti vissuti anche attraverso le esperienze sessuali.

Lei fu una delle prime donne a denudare la propria anima per me. Ora, e lo dico con lo stesso candore delle sue confidenze, mi piacerebbe sapere se il sogno di ritornare a Caserta si sia avverato, e se quel mal de vivre che la spingeva a ricercare la compagnia di giovani uomini si sia mai placato. Mi piacerebbe conoscere il suo vero nome, per dare a questo ricordo nuove sfumature, ma, più di ogni altra cosa, desidererei le arrivasse questo racconto per sussurrarle all’orecchio che la sua conoscenza, seppur breve, ha toccato comunque la mia esistenza.

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