ELOGIO DEL NO

Ho sempre creduto, erroneamente, che un no detto con determinazione equivalesse a una mancanza di sensibilità verso la persona a cui era destinato. Una risposta affermativa, al contrario, giungendo dal cuore o dallo stomaco, è carica di quell’entusiasmo che travolge chi lo riceve. Potrei sintetizzare dicendo che il rilascia endorfine, mentre il no genere tossine.

Penso sia capitato a chiunque, almeno una volta nella vita, di aver provato quel leggero fastidio nel ricevere un no come risposta. A me è successo, e confesso di averlo inteso (stupidamente) come un affronto alla mia persona. L’ho pensato fino a quando mi sono ritrovato a svolgere un lavoro in cui i no sono all’ordine del giorno e hanno un peso rilevante tanto quanto i . Possono assumere la forma del non mi interessa, non ho tempo, non ho voglia, tutte forme negative di cui, però, inizio ad apprezzarne la franchezza. Per quanto brucianti siano queste risposte, nel momento in cui le ricevo mi alleggeriscono di quell’inganno celato dietro a una falsa risposta positiva detta per non ferire o creare imbarazzo.

Testo sulla mia pelle, giorno dopo giorno, il disturbo generato dalle false promesse. Mi illudono con una promessa che mai accadrà. E questo disagio è più fastidioso della semplice verità, per quanto sgradita possa essere. A differenza del che arresta un cammino proprio in quanto è nella sua natura essere accomodante, il no permette di avanzare in quanto stimola il bisogno di superare un ostacolo. Ogni rivoluzione, sia essa personale o rappresentativa di un intero popolo, affonda le proprie radici su divieti e privazioni. Impariamo a dire no, magari motivandolo, per rispettare la persona che ci sta davanti. Impariamo a dire no per non mentire a noi stessi.

Eccomi a scrivere di notte svegliato dall’insonnia

Eccomi a scrivere di notte svegliato dall’insonnia. Con cadenza mensile capita mi svegli verso l’una e, fino allo spuntar del sole, rimango vittima di una veglia inopportuna. Almeno stanotte riesco a dare un senso compiuto ai pensieri pigiando i polpastrelli sulla tastiera. Molti dei miei racconti nascono nelle notti insonni per poi, al mattino seguente, rimanere idee sconclusionate nella sintassi. Pezzi illogici di storie scarabocchiate su fogli rigati, oppure ricreate attraverso la mediazione del monitor. Comunque sia, è l’una, e sono sveglio.

La guancia sinistra è rigata da una lacrima. Quell’unica goccia ha lasciato un solco che se ne andrà via con dell’acqua gelida. È la traccia che i sogni, elaborati nelle poche ore di sonno, percorrono per poi svanire nel ricordo annebbiato del risveglio. È una lacrima solitaria che mi tiene compagnia, e di dormire, non se ne parla. Con il monitor acceso, e le parole che si susseguono cercando di stare al passo con i lampi del pensiero, ascolto uno di quegli album che riservo per la notte. Musica da ascoltare quando l’oscurità è alta, e il silenzio del mondo è una carezza di raso vellutato.

Il mese scorso, in una notte simile a questa, cercavo di entrare in sintonia con un gatto dal pelo rosso. Se ne stava seduto sul marciapiede di fronte e miagolava nella mia direzione intavolando un discorso nella sua lingua ignota. Sorseggiando il caffè, emettevo quei versetti idioti che chiunque produce quando si trova al cospetto di un gatto. Poi un urlo persistente ha interrotto quel nostro intimo dialogare.

«Va via» urlava un’anziana dalla casa di riposo nascosta dagli alberi. Io e il gatto ci siamo girati verso la provenienza del lamento disperato, ascoltando rapiti la supplica della donna. Solo nel momento in cui il felino ha deciso di viversi la notte nella casa diroccata lì vicino, sono riuscito a chiudere la finestra e accendere lo stereo per coprire il lamento. Al mattino, dopo aver sonnecchiato poco più di un’ora, credevo d’aver scordato il gatto e le grida. Per me erano divenuti classici avvenimenti insignificanti che colleziono nelle notti insonni per poi lasciare si riempiano di polvere in qualche scatolone nella soffitta della mia memoria. Fu il carro funebre, che incrociai mentre andavo al mercato, a sbattermi in faccia un gelido ceffone. Percorreva il viale della casa di riposo, alla velocità che meglio si addice a mezzi progettati per quell’unico scopo, dirigendosi verso la palazzina incriminata.

«La vecchia ha visto la morte». La mente mi martellava con questi stupidi pensieri, e un brivido bastardo passeggiava lungo la spina dorsale punzecchiando ogni mia vertebra. E provai a scrivere di getto quelle sensazioni per trovare conforto nei raggi solari, ma alla luce diurna le sensazioni provate mi parvero false e sconclusionate come molti dei miei racconti. Ho dovuto attendere l’ennesima notte di veglia per riprodurre questa piccola vicenda sulla tastiera ma, nonostante i pensieri abbiano acquisito consistenza, l’incompiutezza continua a tormentare i ricordi.

Ed eccomi a scrivere di notte in compagnia dell’insonnia. Sono circa le tre, e Spirit of sorrow continua a riempire la mia notte. I polpastrelli si sono sbizzarriti con la tastiera e forse domattina avrò dimenticato questo scritto pubblicato in questa notte di fine estate.

Questa storia è vera, asciutta e diretta

Questa storia è vera, asciutta e diretta. È il racconto di una madre che rimarrà senza nome.

Siamo seduti vicini ,e nell’insolito contatto creatosi tra noi, mi parla del figlio.

«È morto a 44 anni» dice guardando l’orologio appeso alla parete per leggere il tempo ormai trascorso.

«Era carabiniere. Era nei Ros. Per sei anni non ho saputo nulla di lui» aggiunge con un misto di orgoglio e tristezza. «Negli ultimi anni della sua vita ha vissuto con un nome falso in una città diversa da Milano, era in servizio lì. Per proteggere me, hanno tenuto segreta ogni informazione che lo riguardava fino al giorno in cui hanno telefonato per dirmi che aveva un tumore e la morte era ormai prossima».

Non piange, e mi guarda cercando di carpire i miei pensieri. La tentazione di pronunciare una parola di conforto è forte, ma parrebbe stantia. Tengo le labbra serrate e faccio un cenno con la testa per dirle di andare avanti, se ne ha la forza e la voglia.

«Ogni anno i suoi comandanti vengono a tributargli onori sulla tomba. Se avesse svolto male il suo compito non lo avrebbero fatto. Mio figlio ha lavorato bene» dice fiera. «Ormai sono vecchia, e vivo con i soldi della pensione del mio defunto marito. Per mio figlio, morto a 44 anni per servire lo Stato, non ho mai visto un soldo, e mi chiedo perché non abbia diritto a una piccola pensione per ciò che ha svolto».

La  guardo e scuoto la testa in segno affermativo. Capisco cosa intende signora, vorrei dirle. Riesco a scorgere quell’assenza che i soldi potrebbero riempire con dolce inganno. Ci alziamo stringendoci la mano. Mi augura buona fortuna per il nuovo lavoro. Le auguro di vivere una vita serena.

Vorrei concludere con un pensiero intelligente questa breve storia per darle il giusto valore, ma sarebbe comunque poca cosa. Mi taccio, proprio come ho fatto con la madre senza nome che per sei anni ha dialogato con un figlio assente.