Cosa mi rimane di Refrontolo se non qualche tramonto rubato da fotografie sgranate. Il soggetto ritratto: i monti in cui sono cresciuto. E poi i pensieri annotati nei taccuini neri, divenuti in seguito spunti per poesie e racconti. E ancora le attese frementi dopo una telefonata mattutina di Manola. Stasera vengo a cena da te, si, salgo da Treviso, porto la pizza. E quelle ore di attesa trascorrevano lente e dilanianti come le promesse mai mantenute, tra me e Manola. Nonostante la forte attrazione. Nonostante il desiderio pulsante. Un ponte sospeso nel vuoto. E ancora il profumo di pane, al mattino, quando uscivo di casa. Impregnava la piazza. E mi precipitavo al forno, vinto dall’aroma, per prendere qualche pagnotta calda e croccante. E al contempo mi rimane il ricordo della processione composta da curiosi nel giorno successivo all’alluvione del 2 agosto. Zombie ciondolanti verso il luogo del disastro. La morbosità è silenziosa. Mai visto prima un numero così copioso di persone riunite per carpire qualche segreto alla Morte.
E ho ancora con me quei taccuini neri in cui è annotato il disagio esistenziale di un ragazzo che cercava risposte. Sempre; e comunque. E quando ripenso a Refrontolo, oltre alle fotografie, alle labbra di Manola, al profumo di pane, rivedo quel buco oscuro in bilico tra i vigneti e i boschi trevigiani. Un piccolo e profondo cratere con vista sui monti in cui sono cresciuto.
DIAFONIE. MICROFISICA DEI PICCOLI GESTI edita da Ofelia Editrice non è più disponibile on-line essendo fallita la casa editrice ma, nel caso tu sia interessto/a, ho ancora qualche copia con me 🙂
Ritornare al paese in cui sono cresciuto è, per me, una lama a doppio taglio: rivivo posti molto cari, rivedo persone dalle vicende personali tristi e/o drammatiche. E questa seconda opzione, immancabilmente, mi riporta a situazioni che non sempre ho voglia di rivivere. Ma si sa, la memoria è bastarda, e si diverte a cancellare alcuni momenti, e a sbatterti in faccia verità poco gradite. Come stamattina quando, passando davanti al cimitero, ho visto uscire Lui.
Avevo stipato in un angolo oscuro e poco accessibile della memoria la sua storia. Anzi, credevo proprio di averla scordata. Non è così. Mi à bastato vederlo salire in macchina per trovarmi a fronteggiare le immagini di alcune stagioni addietro. Temevo che quei ricordi mi avrebbero segnato il resto della giornata quando, una vecchia panda, è venuta in mia soccorso. L’ho sentita rompere il silenzio regnante tra le vigne. E mentre mi abbasso per legare J. al guinzaglio, e toglierci così dalla strada, sento la vettura fermarsi di fianco a me. Senza concedermi il tempo di capire, una voce conosciuta mi rivolge la parola.
«Claxe». [1]
‘l Guru! Sono anni che non lo rivedo. Gli guardo la barba e sorrido perché è striata di bianco. Parliamo del tempo per riprendere i fili di una chiacchierata interrotta anni fa, e buttiamo sul piatto qualche informazione relativa alle nostre vite.
«Te ali dita che son diventà pare?». [2]
«Mas-cio o…». [3]
«Toseta toseta» [4]
«Manche solche mì» [5] dico divertito perché amo troppo le donne per legarmi a una sola di esse e perché, nei sentimenti, discorsi quali “tu sei mia io sono tuo” mi fanno venire la pelle d’oca.
E mi racconta della piccola e di come ultimamente dorma poco, e mi spiega di aver portato pure lui il cane a fare un giro, sconsigliandomi di attraversare il bosco che incorona la cima dei colli.
«Ij à molà tanta de cheła merda chimica che non xe respira». [6]
Lo ringrazio per l’informazione e salutandoci come se l’ultima volta in cui ci siamo visti sia stato il giorno precedente, e non dieci anni addietro, malediciamo la coltura intensiva di prosecco.
‘l Guru, mi dico. Sorrido per il piacere della sorpresa inaspettata. Siamo cresciuti assieme fino ai 30 anni circa, poi le vite hanno preso strade diverse, come è giusto che sia. Da bambini/ragazzini eravamo i bullizzati; gli emarginati. Vittime ideali di scherzi e prese in giro, a volte anche pesanti. Ma, tralasciando questo aspetto, per me ‘l Guru è il chiodo; le borchie; gli anfibi; i giri nei boschi; le scorrazzate – in Cansiglio e in mezzo Veneto – con la panda 4×4 dotata di uno stereo mangiacassette al posto dell’autoradio; e ancora i nastri dei Black Sabbath, In Flames, Nofx, Bad Religion; i riff e gli a solo di chitarra di Jeff Waters; il black metal dei Darkthrone, e dei Dimmu Borgir; le frequentazioni, in compagnia di John Chémola signore indiscusso di Pittsburgh, di locali nascosti tra i boschi bellunesi degni delle migliori pellicole di Lynch in quanto ambientazione e avventori.
Io e ‘l Guru siamo i bullizzati che riescono a dare sfogo alla rabbia grazie al punk e al heavy metal e che, creandosi un alone da duri – aspetto lontano anni luce dalla nostra natura, intimoriscono gli altri cantando Natassja, my beloved satanic witch, the power in your eyes and yourself, worked for the noble in man[A] oppure Come come to the Sabbath, down by the ruined bridge, witches and demons are coming, just follow the magic call [B]– formule magiche capaci di tenere lontani gli stronzi.
E sorrido ripensando a quel periodo perché, rispetto a molti altri, siamo riusciti (annaspando) a rimanere a galla senza mai colare a picco. E sono felice per lui perché ha trovato la propria strada, e una compagna. E mentre lo guardo allontanarsi mi accorgo di non avergli chiesto chi sia la fortunata. Stordito!
Finita la camminata di qualche chilometro, la prima cosa che faccio è chiedere a mia madre se sappia chi sia la donna misteriosa ma, oltre a dirmi dove abita (notizia saputa da ‘l Guru stesso) altro non ricorda. Ed essendo il sottoscritto un curioso a scoppio ritardato telefono a mia sorella sperando di avere fortuna. Si chiama … e ha tre anni più di te. Nome e età poco mi dicono finché, dalla memoria bislacca, compare l’immagine di un’automobile arancione. Proprio lei, dice mia sorella, mi domando come tu possa averla associata alla macchina che aveva più di 20 anni fa. Potere di una mente bislacca!
La ricordo benissimo. Era il sogno di noi ragazzi, e di tanti uomini. Ricordo il suo fascino femminile carico di mistero, e mai volgare. La bellezza inavvicinabile capace di far girare la testa ai maschi. Mia madre vede lo stupore sul mio volto mentre sono ancora al telefono e dice, si, proprio lei, sembra quasi incredibile. È vero. Sembra incredibile. Il ragazzino vessato da tutti conquista colei che, per la maggior parte dei maschi paesani, incarnava l’essenza della bellezza femminile.
E rido perché stamattina, rivedendo Lui, temevo che i ricordi mi avrebbero segnato la giornata con verità poco gradite e invece, mentre ascolto i Darkthrone, ripenso alla panda 4×4, alle risate, e a rendere questo piccolo racconto degno de ‘l Guru.
Traduzioni: [1] Classe. Saluto tipico tra persone nate nello stesso anno. [2] Qualcuno t’ha per caso detto che sono divenuto padre? [3] Maschio [4] Bambina. Termine usato nella sinistra Piave, nella destra si usa dire anche putéa (per scoprire la differenza tra sinistra e destra Piave cliccate QUI) [5] Rimango solamente io [6] Hanno cosparso il terreno con tanta m. chimica da rendere l’aria irrespirabile
Riferimenti musicali: [A] Darkthrone: Natassja in eternal sleep; Under a funeral moon (album), Pieceville Records (1993) [B] Mercyful Fate: Come to the Sabbath; Don’t break the oath (album), Roadrunner Records (1984)
Se invece vuoi scoprire altri racconti, clicca pure QUI
Dopo mesi di silenzio poetico ripropongo dei versi. Li ho scritti quest’autunno, e mi auguro riescano a trasmettervi la sensazione che si prova a fine novembre quando l’inverno è ormai alle porte. Buona lettura! E vi invito a commentarli 🙂
P.S. Novembre è volutamente con l’iniziale maiuscola: chissà se qualcuno riuscirà a coglierne il significato (o la dedica) 😉
LA RICERCA DELL’INFINITO
Scrutai alberi spogli
protrarsi all’infinito,
disperati; morenti.
Udii le foglie avvizzite
adagiarsi al suolo,
gelido; compatto.
Era grigio Novembre,
diradato e depresso,
l’istante in cui percepii
la greve ricerca dell’infinito.
Ehi, ho pure pubblicato una silloge, la trovate QUI
Capita associ persone (importanti o meno) a luoghi specifici, e credo sia una prassi comune a tanti e a tante.
Può essere il ricordo del primo bacio, oppure di un appuntamento tanto desiderato. Può capitare per un fatto spiacevole o traumatico, o per un avvenimento inspiegabile. Imprimiamo, in noi stessi, il volto di una persona in un luogo specifico per sprigionare la magia del ricordo. Perché, in fin dei conti, c’è qualcosa di magico nell’associazione volto-luogo. È un legame che crea sogni, visioni, emozioni.
Ne ho molti, di questi luoghi, e tutti sono associati a situazioni strane e simpatiche. L’ultimo, in ordine di arrivo, è un quartiere di Belluno: Borgo Piave. La “scoperta” è merito di I. che, durante una serata in cui rifuggivamo la presenza umana tra Longarone e Belluno, mi ha condotto in questo quartiere molto affascinante. Ci siamo distesi sull’argine del Piave, e lì abbiamo concluso la nottata parlando del più e del meno.
Dovete sapere che il rapporto con I. si può definire amicizia intima; e in questa amicizia il sesso è un’esperienza speciale. Se ci guardo dal di fuori, mi pare di osservare due bambini mentre compiono una marachella. Ridiamo spensierati scambiandoci aneddoti e racconti e, lo confesso, con lei il sesso è pura spensieratezza. Per me equivale a rilassamento fisico e intellettuale. E sorrido per questa associazione tra I. e Borgo Piave, un quartiere costruito a ridosso della sponda destra del Piave che ti invita a salire a Belluno percorrendo a piedi il centro storico ricco di angoli sinuosi e vicoletti dai lineamenti misteriosi.
Sorrido perché il Piave è parte costante della mia vita. Mio padre è cresciuto a stretto contatto (lato sinistro) con questo fiume, e da tre anni ci vivo vicino pure io. Tra i tanti aneddoti legati al fiume caro alla Patria, nella provincia di Treviso è importante precisare da che lato si proviene. Destra Piave sta a indicare la pianura, l’accento veneto molto marcato nella parlata, e un’apertura mentale che si riscontra meno per chi è nato nella Sinistra, come il sottoscritto. E, tra questi aneddoti, ce n’è uno in particolare con protagonista mio padre.
In gioventù (lo confessò una sera) i carabinieri gli sequestrarono tre Guzzi e 7 barra 8 automobili (il numero esatto non lo ricordava) perché si divertiva a partecipare/organizzare gare clandestine sul letto del fiume interessato dall’estrazione di ghiaia. E quando gli chiesi che fine fecero quei bolidi, papà –ridendo come un bambino colto sul fatto mentre compie una marachella– rispose che forse erano ancora nel deposito dell’Arma. «Mi vergognavo troppo per andare a riprenderli –al tempo erano meno fiscali– e così» disse divertito «dopo ogni sequestro, mi compravo un’altra moto o una macchina». E mi fa ridere ripensare al suo volto mentre mi raccontava le imprese al volante perché ho lo stesso sguardo bricconcello mentre ripenso ai giochi con I., colei che, in una notte passata a zonzo tra Longarone e Belluno, mi portò a Borgo Piave per fuggire dal marasma umano imprimendo così un nuovo ricordo nella mia mente già satura di associazioni bislacche.