Qualche lustro addietro, quand’ero ancora ragazzino, avevo un gatto. Bianco come la neve, grosso come un cane. Tal simpatico felino aveva un carattere simile al mio: selvàrego [1]. Lo battezzai Freddy, in onore a uno dei personaggi creati da Wes Craven. Il mio Freddy, a dispetto di quello craveniano, non sventrò mai J. Depp; si limitò a lasciarmi solchi lungo braccia e gambe con quegli artigli lunghi così. Era veramente selvàrego. Proprio come me.
Crescendo, Freddy si stufò d’arare i miei arti e si appassionò con ardore ai piaceri voluttuosi della carne tanto da ingravidare più di una gatta, lasciando in eredità tanti bastardini pezzati di bianco. Ne contai almeno sei aggirarsi nel capannone del vecchio burrificio – avete letto bene, è una U – e nel cortile di Mario.
Mario viveva con Ana (all’anagrafe Anna) la moglie – non era straniera, bensì mianese d.o.c. (noi veneti abbiamo repulsione per le doppie, ci fanno perdere tempo prezioso) – in una vecchia casa circondata da piante, e corredata da uno splendido cortile-discarica (ricordo, nell’ordine: un relitto di automobile senza parabrezza; una vasca da bagno incrostata; una Guzzi rossa, forse per la ruggine).
Con l’avanzamento dell’età anagrafica, forse per un effetto di compensazione, la memoria di Mario regredì riportandolo al tempo in cui era un giovane balilla, risvegliando così l’antico orgoglio italico manifestato sotto forma di canzonette del Ventennio (quali faccetta nera e simili) con cui tampinava i timpani di noi vicini ogni mattina. E questo amor patriottico per l’italiche musichette si palesava pure durante l’ora di pranzo – soprattutto quando Ana era fuori per lavoro – momento in cui Mario si deliziava con una bistecca. La cucinava con calma; la serviva sul piatto; poi andava ad armeggiare con il giradischi per sollazzare l’udito con faccetta nera. In quel breve lasso di tempo entrava in gioco, pardon, entrava dalla finestra, Freddy.
Il felino tanto selvàrego quanto astuto, studiando a tavolino ogni mossa del balilla, appena questi gli voltava le spalle, zompava sul tavolo appropriandosi indebitamente della bistecca cotta a puntino.
‘l tò gat ‘l me à ciavà la bisteca n’altra olta, jer [2] diceva Mario facendomi la posta mentre mi recavo a scuola.
Ringraxia ‘l Maxełòn [3] gli rispondevo scattando sull’attenti battendo i tacchi.
Fine del ricordo.
[1] selvatico
[2] ieri, il tuo gatto, s’è preso nuovamente la mia bistecca
(apro piccola parentesi: in veneto il verbo ciavàr ha un doppio significato. Il primo potremmo tradurlo con l’italiano rubare. Il secondo con scopare, inutile precisare che non si tratta dell’azione domestica di spazzare il pavimento. Chiudo piccola parentesi)
[3] non credo serva traduzione
e per chi abbia voglia di scoprire i racconti di questo baldo giovane, non rimane che cliccare sopra questa bella X