Ultima stazione, presente in Di luce e di oscurità, è una poesia lontana nel tempo. Ha assistito a tre cambi di residenza, accompagnandomi nelle vicende capaci di segnare profondamente la mia vita. Prima di comparire in volume ha conosciuto qualche leggero cambiamento (è una delle conseguenze della crescita) ma la struttura è rimasta pressappoco la stessa. Ultima stazione è una poesia cupa. Ultima stazione è una poesia che amo.
Desiderio d’oscurità
assale la mia mente.
Vecchi pensieri
viaggiatori incalliti
(oramai spossati)
si preparano
molto mestamente
al loro ultimo viaggio.
Non ci sarà ritorno
né grandi gioie alla partenza
solo dolore e sofferenze.
piccola nota:
per chi volesse leggerla con una base musicale consiglio questo magnifico pezzo dei Dark Sanctuary
Oggi vi parlo di un racconto contenuto in Diafonie. Microfisica dei piccoli gesti edito da Ofelia Editrice. Si intitola Riflessi incondizionati e nasce grazie a due procedimenti specifici.
Il primo è frutto di una tecnica letteraria per superare il cosiddetto blocco dello scrittore. Si prende un foglio bianco e, in modo ripetitivo e ossessivo, si scrivono in rapida successione frasi tipo “non ho idee” o “non so cosa scrivere”. La mente cederà, per sfinimento e noia, e il flusso di idee scorrerà libero, soprattutto attraverso associazioni mentali impensate (provare per credere).
Il secondo procedimento è più immediato. Si attingono dai ricordi luoghi, o persone del passato, per costruire una storia ancorata al presente.
Riflessi incondizionati è nato dall’unione tra la voglia di smontare schemi mentali, e i pomeriggi trascorsi dal barbiere quando ero ancora un bocia[1].
Se per caso vi capita di passare per Miane percorrendo la strada che da Vittorio Veneto va a Valdobbiadene, lungo il percorso, sulla destra, troverete la bottega di M. Lì andavo a tagliarmi i capelli. Entravo chiedendo un’acconciatura così, e così, ed uscivo con il taglio voluto da M. Era un barbiere vecchio stile: mode e desideri dei clienti gli erano indifferenti. Conosceva quei quattro tagli, e li abbinava alla testa che aveva tra le mani. Semplice. Prendere o lasciare.
Mio padre provò l’arte di M, una volta. Rincasando disse mai più. Preferiva andare da T Faldìn[2] (il soprannome si commenta da sé) anche se questi aveva la bottega a tre chilometri da casa nostra. E poi M ‘l ciàcola masa e ‘l è un basabanc [3], come ribadiva sempre papà. Ottimi motivi, dal suo punto di vista, per non recarsi dal mio barbiere. Per me, invece, l’idea di evitare una pedalata in salita era un ottimo motivo per scegliere M.
Comunque non era solo la pigrizia a portarmi lì. In realtà quella bottega mi piaceva. Era spoglia, piccola, minimale. La radio perennemente sintonizzata in stazioni deprimenti, e tra le tre poltrone, destinate a chi attendeva il turno, c’era un unico tavolino con qualche numero di Tex. E niente altro. Era un luogo per chiacchierare di politica, di calcio, delle novità che rompevano la noia paesana. E, nonostante fossi solo un bocia [1], lì, e solo lì, avevo il diritto di ascoltare i discorsi dei veci[4], con il privilegio di fare qualche battuta. Era una bottega prettamente per maschi, e chi vi entrava, qualunque età avesse, era considerato tale.
In più mi piaceva quel senso di vuoto che si respirava osservando la mensola del lavello. Niente lozioni, o creme. C’erano il sapone da spalmare sulla barba, uno shampoo per capelli normali, e uno per capelli bianchi. Ma l’oggetto più importante era il rasoio. Manico bianco/avorio, e lama sempre affilata. M lo teneva immerso nell’alcol rosato in un vasetto simile a quello della marmellata. Era il rasoio usato per modellare le basette ed eliminare i peli sulla nuca. Lo strumento che sanciva la fine della seduta. In quella bottega mi sentivo uomo anche se la barba era ancora una chimera. Ascoltavo la radio noiosa, e mi appropriavo dei discorsi dei veci[4] che inveivano contro Andreotti o Cirino Pomicino. Anche se non l’ha mai confessato, M votava DC, e molti clienti, schierati con Craxi e De Michelis, usavano il suo negozio come luogo di dibattito politico.
E in quegli anni in cui la mia formazione procedeva in modo bislacco, oltre a divertirmi nel seguire le dispute politico/filosofiche tra un taglio e una rasatura, aspettavo il momento in cui papà sarebbe rientrato dalla sua seduta dal barbiere. Sapeva lo avrei canzonato chiamandolo Alain Delon dei poveri e, nonostante sia una storiella molto divertente, forse ve la racconterò al prossimo taglio di capelli. Giusto per lasciarvi con l’acquolina in bocca.
Potrei inoltre parlare di quando papà si iscrisse al PSI, e partecipò a una cena con De Michelis. Di per sé la vicenda è poco interessante ma -immancabile come la morte- a ogni battibecco mamma rispolverava la vicenda del tesseramento al PSI (e la cena offerta dal gaio politicante veneziano) per aggiungere altra carne al fuoco e ricordare a papà che non ne combinava mai una giusta. Lui rideva, io pure. Chissà, forse in quegli anni l’iscrizione al PSI avveniva nelle botteghe dei barbieri. O forse questa è solo una sequenza di associazioni mentali atte a dimostrare la validità delle tecniche usate per scrivere Riflessi incondizionati.
[1]bocia: ragazzino/persona inesperta
[2]faldìn: falce
[3]‘l ciàcola masa e ‘l è un basabanc: ciancia troppo ed è un (lett. tradotto) baciabanchi (l’equivalente in italiano è baciapile)