Rho-Fiera.
Scendo dal vagone, e mi guardo attorno. Come sia finito in questa stazione ferroviaria ha quasi dell’incredibile. Ma ci sono. Inutile recriminare.
È nuova, la struttura, ma con l’aggiunta del quasi. Proprio così. È la sensazione del nuovo invecchiato. Il declino è già iniziato. Lo noto da piccoli segni. Vetrate, nel sotterraneo, destinate a qualche ufficio/negozio espongono il nulla. Angoli bui permettono alla sporcizia di maturare. E quel senso di vuoto che, oltre alle vetrine menzionate poco prima, percepisco sfrecciare tra i binari.
Si ferma un treno. Quello che mi colpisce, e non in senso figurato, è lo stridio della frenata. Mi prende a pugni le orecchie. È poco piacevole.
La voce metallica annuncia il termine della corsa: Varese. In successione elenca le stazioni in cui il convoglio si fermerà per lo scarico/carico dei passeggeri.
Io attendo un treno che mi porti alla fermata successiva: Rho. Senza trattino Fiera.
La coincidenza è partita prima del mio arrivo, e la successiva è in ritardo. Mi guardo attorno sconsolato. L’attesa induce all’apatia. Posso solo attendere, e guardare. È un modo come un altro per ammazzare il tempo. Curiosa, l’espressione. Dà una sensazione di immediatezza. Io devo attendere che il mio tempo si spenga per consunzione. Alzo le spalle.
Un uomo in sovrappeso cammina aiutandosi con un bastone treppiede. Trascina prima una gamba, poi l’intero peso. È diretto verso un cestino dei rifiuti posto al di là della tettoia. Giusto dove finisce. Si curva leggermente in avanti, apre la patta, e urina osservando il getto. Terminata l’operazione ripone nei calzoni la mercanzia e, con lo stesso passo strascicato, torna ad appostarsi sotto a un monitor. Ha lo sguardo inespressivo e al contempo fiero.
Un uomo basso mi passa davanti. Ci guardiamo. La situazione è comica. Capiamo di essere entrambi estranei al luogo e mentalmente calcoliamo chi dei due abbia percorso più strada. Lui prosegue la sua traiettoria, io guardo il monitor sopra la testa dello sciancato sperando in qualcosa di imprecisato.
Devo percorrere altri sette minuti di treno, e quello che attendo ha accumulato un ritardo di quindici minuti. Lascio ai posteri eventuali commenti.
Rivolgo l’attenzione ai binari. Sfrecciano treni diretti a Milano. E Rho, di cui conosco solo nome e stazione trattino Fiera, è a pochi chilometri dalla metropoli. Sono vicine, eppure lontane. La distanza è una sensazione tangibile. La noto nei passeggeri. È l’aria che si respira nei piccoli centri. La stessa aria delle periferie.
Le persone alla stazione di Milano erano impeccabili nonostante viaggi lunghi e spossanti. Sembravano vestite a puntino per calcare il suolo meneghino. La città della Moda richiede classe. Raggiungerla da impreparati è mancarle di rispetto.
A Rho trattino Fiera è diverso. È permesso il lusso della sciatteria. Io non faccio sconti.
I carrelli motorizzati trascinanti cumuli di valige sono un ricordo lontano, qui. Come lo sono i negozi che espongono mercanzia dalle cifre elevate. C’è il vuoto, a Rho trattino Fiera. E le persone in attesa, allineate dietro la linea gialla, sembrano adattarsi a ciò.
Mi chiedo se sia realmente l’atmosfera di periferia, o se sia io a notare cose assolutamente comuni. Immagini di maschere umane che noterei pure a Milano. Ma il treno ritarda, leggere un libro non mi va, e osservo i vari stazionanti. Tutti in silenzio. Senza auricolari alle orecchie, o riviste da sfogliare. Non masticano nemmeno cibo prodotto da qualche multinazionale del settore alimentare.
Sto vivendo il surreale.
Trenta minuti alla stazione, e l’unica parola udita è stato un saluto, in una lingua a me sconosciuta, tra due persone di origine africana.
E dire che me l’immaginavo diversa, la stazione di Rho trattino Fiera. Ero convinto di trovare file e file di pendolari pronti a recarsi a Milano. La verità è l’esatto opposto. I presenti se ne allontanano. Arriva il mio treno. Fine corsa Rho, annuncia la voce metallica.
Oltre all’addetto delle ferrovie, sono l’unico a salirci. Mi scappa un sorriso. Ho un treno tutto per me. Quattro vagoni da dividere con il dipendente delle ferrovie. I sette minuti volano sulle rotaie, e mi ritrovo nel sottopassaggio di Rho. Non ho tempo materiale per studiare la stazione. Ha comunque l’aria da periferia. È più vissuta della trattino Fiera. Piccole scalinate dagli scalini sbeccati. Piccole piastrelle colorate gettate tra mattonelle bianche. L’ultima ristrutturazione, mi dico, è avvenuta negli anni settanta. Qui il carrozzone dell’Expo non è arrivato. Salgo in superficie. Esco in strada.
Rho ha quell’odore che mi aspettavo di trovare. È il piccolo centro inglobato dalla metropoli, e successivamente dimenticato. È un giocattolo per il bambino già sommerso di distrazioni. Il nuovo presente scalza i vecchi. Giorno dopo giorno i giocattoli aumentano di numero, e il destino di quelli obsoleti è finire in una scatola ammuffita. Se nel ripostiglio o in soffitta, poco importa.
Vedo un taxi e mi faccio portare in un buco disperso nel nulla. Lo scopo è tornare al punto di partenza. Il mio fine ultimo, ancora imprecisato.